Alex Kidd portabandiera del si stava meglio quando si stava peggio | Racconti dall’ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Ho un ricordo molto affettuoso del Sega Master System, mia prima console giapponese, curata, amata e coccolata nel tempo, mettendo da parte ogni spicciolo che riuscissi a racimolare per comprare cartucce, spesso letteralmente a costo di fare la fame. E mi piange ancora il cuore al pensiero di quando vendetti tutto quanto per fare l’upgrade ai 16 bit del Mega Drive. Fra i giochi con cui mi dilettavo sulla console a 8 bit di Sega c’era Alex Kidd in Miracle World, che non era Super Mario Bros., me ne rendevo conto io per primo, ma sotto alla sua legnosità nascondeva comunque un gioco di piattaforme bizzarro, divertente e, soprattutto, di personalità, che non si faceva problemi a trovare una sua strada, fin da quella meravigliosa schermata del titolo. Il tratto più distintivo, o comunque quello che più mi è rimasto in testa, era la scelta di strutturare le battaglie coi boss di fine livello come sfide a morra cinese. Una trovata affascinantissima, buffa, divertente, che spiazzava e destrutturava, oltre a far girare i coglioni in maniera smisurata quando non riuscivi a vincere. Tra l’altro, proprio adesso, mentre sto scrivendo, mi è venuto un dubbio: c’era un modo per vincere che non fosse basato sulla pura botta di culo? Può essere che il gioco ti desse quella frazione di secondo di margine per scegliere la tua mossa subito dopo aver visto quella del boss? Tipo i rigori di International Superstar Soccer 64, che potevi letteralmente parare gettandoti dopo aver visto da che parte si dirigeva la palla, se eri abbastanza veloce. Onestamente, non ricordo.
Comunque, Alex Kidd in Miracle World mi piaceva un sacco ed era un affetto piazzato a metà fra il reale apprezzamento per il gioco, il reale divertirmici, e quella sensazione un po’ da amighista che si accontenta del platform medio, al limite buono, perché tanto sa che il capolavoro presente sulla console Nintendo non può averlo. E no, all’epoca non avevo ancora l’Amiga, ma insomma, ci siamo capiti. E poi avevo il Commodore 64, quindi siamo lì. Comunque, ero un discreto fan e ricordo chiaramente quanto desiderai gli altri Alex Kidd per Sega Master System, visti apparire misteriosamente fra pubblicità assortite e piccoli spot sui manuali e sulle confezioni di altri giochi, ma mai nemmeno provati in un negozio. Anche qui, posso sbagliarmi ma credo che i vari The Lost Stars, High-Tech World e Shinobi World fossero rari, per così dire, o comunque distribuiti con meno convinzione e, quindi, più difficili da trovare. O magari si trovavano ma io davo la precedenza ad altro. Però, nei miei ricordi, la sensazione è quella lì, quella di quando vedevi dei Masters fichissimi nelle immagini pubblicitarie sulle confezioni di quelli che possedevi ma poi, nei negozi, non li trovavi mai.
Quindi, di fatto, la mia esperienza con Alex Kidd fu quella di chi, come si faceva all’epoca, giocò, rigiocò e rigiocò ancora all’episodio originale, imparandolo praticamente a memoria, arrivando a finirlo quasi senza pensarci, anche consapevole che era un gioco senza dubbio più accessibile, se non proprio facile, rispetto a tanti altri dell’epoca. E la mia unica altra esperienza col personaggio fu su Mega Drive.
Quando vendetti il mio bel Sega Master System, con tutta la sua caterva di giochi e periferiche, tirai su soldi a sufficienza per acquistare un Mega Drive giapponese (all’epoca non era ancora arrivato in Italia per vie ufficiali), con la bellezza di tre giochi. Madonna, solo a ripensarci, le unghie sulla lavagna. Volevo fortissimo il gioco di Ken il guerriero, ma a 68000 e dintorni, il negozio da cui scelsi di servirmi, non ce l’avevano. E io non ero in grado di resistere e aspettare che lo recuperassero. Puntai quindi su due sparatutto, Curse e Tatsujin (che arrivò poi in Europa come Truxton), e su un gioco la cui confezione ritraeva un tizio che urlava e (mi) sembrava un po’ Ken il guerriero. Così, per compensare. Era Kujaku 2 ed era pure lui basato su un cartone animato, che non conoscevo e vidi qualche anno dopo. E Alex Kidd? Beh, Alex Kidd arrivò poi, onestamente non ricordo bene quando. Ricordo anche che a un certo punto comprai tale Osmatujin, pure lui basato su un cartone animato, che un po’ mi ricordava Alex Kidd. Prima? Dopo? Whatever.
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Comprai Alex Kidd in the Enchanted Castle in versione giapponese e infatti non avevo la minima idea di quale fosse il titolo vero e proprio. Per me, era Alex Kidd per Mega Drive. Tra l’altro, sempre secondo i miei ricordi fumosi dell’epoca, la versione europea del gioco non godette di una diffusione particolarmente capillare, proprio come gli episodi per Master System, magari perché era immersa in un’aura un po’ da sticazzi, ormai, o perché il personaggio non aveva mai sfondato come nei desideri di Sega, secondo me soprattutto perché si cominciava ad annusare puzza di porcospino.
Fatto sta che ci misi mano in versione giapponese e trovai un gioco gradevole, simpatico, che tra l’altro aveva un taglio da seguito di Alex Kidd in Miracle World molto più di quanto non lo avessero gli altri giochi della serie. Ma questo, all’epoca, non lo sapevo, è roba che ho scoperto solo grazie a internet.
L’epoca era ancora quella dei giochi d’azione che si finivano relativamente in fretta e infatti anche Alex Kidd in the Enchanted Castle lo esplorai in lungo e in largo centomila volte. Tanto più che era facile, molto più facile. A parte che le sfide a morra cinese erano diventate meno fondamentali, il gioco seguiva quell’evoluzione del settore che mi stava un po’ sui maroni ma, col senno di poi, è difficile non apprezzare. Ci si stava gradualmente scrollando di dosso l’idea che il giocatore fosse una vittima da brutalizzare e i giochi diventavano pian piano più abbordabili. Intendiamoci: per gli standard odierni, erano comunque spesso tostarelli, ma nel passaggio dagli 8 ai 16 bit, perlomeno su console, trovai percepibile in maniera netta questa semplificazione. Era evidente soprattutto nei seguiti, su entrambe le console di punta dell’epoca, e giochi che, presi oggi, sono comunque belli tosti, mi sembravano di una facilità quasi imbarazzante, perché ero stato allevato nella Tana delle tigri dei precedenti episodi a 8 bit.
Alex Kidd in the Enchanted Castle, così come tanti altri giochi per Mega Drive, compresi quelli citati prima, non sfuggiva alla regola. Si finiva in fretta, era più accomodante, non offriva una grande sfida. Inoltre, non saprei, nella mia testa, pur essendo ovviamente superiore per potenza grafica, aveva meno carattere, meno personalità, meno fascino rispetto al capitolo originale. Insomma, era un seguito gradevole ma un po’ moscio, ennesimo spunto per permettermi di comportarmi già da vecchio scorreggione nostalgico rompicoglioni quando ancora dovevo scoprire appieno le meraviglie della pubertà. Mi piaceva, eh! Ma era quel piacermi anche un po’ figlio della necessità, dell’autoconvincimento, del “Oh, questo c’ho, che dobbiamo fare?” Mi ci divertivo, eh, ma sotto sotto rimpiangevo l’Alex Kidd che avevo avuto in casa per anni e rimpiangevo pure ingenuamente quelli (brutti) a cui non avevo mai giocato. Eh, first world problems.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al Sega Mega Drive (Mini e non), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.