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Paperback #29: Alita non si fa abbastanza pippe

Paperback è la nostra rubrica in cui parliamo di libri e fumetti non legati al mondo dei videogiochi. Visto che per quelli legati al mondo dei videogiochi c’è quell’altra.

Pipponi.

Se c’è una costante che mi accompagna fin dall’adolescenza - che dico, dall’infanzia - sono i pipponi. E non mi riferisco tanto alla pratica smanacciona (c’è anche quella), quanto piuttosto a una vocazione verso i concetti complessi, o presunti tali. Verso opere piene di mitologie intricate e di misteri, ma pure verso i mappazzoni sentimentali: c’è tutto un filone di fumetti/libri/film da serve che ho spolpato durante i miei anni migliori.

Ci pensavo prima mentre stavo al cesso, a ‘sta cosa dei pipponi, ché ancora non avevo trovato la chiave giusta per attaccare il pezzo. A margine: non si contano le volte che il cesso mi ha salvato il culo - oltre che alla lettera - dal panico da foglio bianco. Credo che non siano state scritte, né si scriveranno mai, abbastanza odi per celebrare il rapporto tra l’andar di corpo e la vis creativa, come se assieme alla diga dell’intestino si stappasse di colpo pure quella del cervello, facendo uscire, nel peggiore dei casi, almeno un gimmick.

Cosa accomuna robe apparentemente distanti tra loro come Twin Peaks, il Suspiria di Guadagnino, IT, Neon Geonesis Evangelion, il remake di Battlestar Galactica, Manhattan, Lost, Mad Men, Maison Ikkoku, Berserk e Il Silmarillion?

I pipponi.

Esoterici, sentimentali o psicologici, ma pur sempre pipponi. Di contro, cosa separa le suddette opere da, che ne so, i vari Mazinga, L'imbattibile Daitarn 3, Rambo, Rocky, Gran Torino, Lo squalo, One Punch Man o Duel? Sempre i pipponi, o l’assenza degli stessi. Poi, per carità, non è che io snobbi le robe che la fanno semplice, anzi. Vado pazzo per Lo squalo, Rocky e Gran Torino, e ho adorato Mad Max: Fury Road e Dunkirk. Solo, ci metto sempre un po’ di più per farmi venire la voglia.

Una bella illustrazione di Yukito Kishiro, tratta dal volume ARS MAGNA.

E non è nemmeno una questione di azione o movimento: Berserk, Hokuto No Ken, One Piece o L’attacco dei giganti sono pieni zeppi di azione. Ma pure di pipponi. Così come non è detto che opere sulla carta poco segaiole non possano aprirsi a insospettabili complicazioni, come dimostra questo articolo dedicato al robot solare di Tomino. Poi, chiaro che c’è pippone e pippone. Ma tutta questa premessa è soltanto un prendere tempo per trovare il coraggio di confessare che, in tanti anni e nonostante i tentativi, non sono mai riuscito ad entrare in risonanza con Alita.

Il ritrovamento di Alita da parte del Dr. Ido

Disegnato e scritto da Yukito Kishiro, noto in patria come Ganmu (Gunm, da “gun's dream”; il rimaneggiamento in Battle Angel Alita è opera di Viz Media), Alita l'angelo della battaglia racconta le avventure dell’eponima ragazza cyborg a partire dal momento in cui la sua mente viene risvegliata dallo scienziato Daisuke Ido. Il mondo di Alita si presenta come una distopia polarizzata tra gli abitanti della città discarica (nomen-omen) e quelli della misteriosa e aristocratica Salem, la cui presenza incombe sull’area sottostante come una spada di Damocle.

Il contesto di partenza è tipicamente cyberpunk, seppure miscelato con un non so ché di fiabesco, ma nel corso del cammino alla ricerca del proprio passato, la giovane finisce con l’attraversare anche altri generi più o meno tangenti. Tipo l’arco narrativo ambientato nel mondo del Motorball, il violentissimo sport futuristico mutuato dai cliché di Rollerball e compagnia; o il segmento desertico post-apocalittico à la Mad Max/Hokuto No Ken, che tira in ballo automaticamente anche il West.

L'evoluzione di Alita lungo gli archi narrativi del manga originale.

Alita l'angelo della battaglia è stato serializzato in Giappone dal 1990 al 1995 e raccolto in nove volumetti. I medesimi sono stati pubblicati in Italia a partire dal 1997 da Planet Manga, dopo un primo tentativo di approdo operato qualche anno prima dai tipi di Granata Press.

Nel 2001, dopo la conclusione del manga originale e al netto di alcune storie collaterali, Yukito Kishiro si è deciso a riprendere in mano il suo personaggio, investendo con una retromarcia il finale originale della serie ed espandendone l’universo narrativo. Ne è uscito Last Order, che è proseguito fino al gennaio del 2014, giusto in tempo per lasciare spazio al prequel/sequel Alita: Mars Chronicle.

Alita Mars Chronicle, iniziato nel 2014, funziona sia da prequel che da proseguimento di Last Order.

Detto questo, io con Alita l'angelo della battaglia - mi riferisco alla serie originale - non sono mai andato tanto d’accordo. Ai tempi, quando mi erano passati per le mani i volumetti editi da Planet Manga, Alita era già una roba di culto: vuoi per la pubblicazione tronca di Granata Press, vuoi per gli OAV sbarcati in Italia qualche tempo prima.

La prima impressione, in verità, non fu pessima, anzi. Ricordo che trovai il design dei personaggi azzeccato e, a modo suo, originale: con quel loro taglio sbilenco ed esagerato, le tavole di Alita erano piene zeppe di creature grottesche e di composizioni fuori di zucca. Lo stile di Kishiro sarebbe poi andato sgrezzandosi nel corso degli anni, guadagnando in dinamismo, dettagli e proporzioni. Eppure, perdendo un po’ per strada la potenza (e l’incoscienza) dei primi lavori.

No, alla base del mio problema con Alita non c’erano i disegni (nonostante la mia predilezione per visioni più asciutte), ma le storie. Tutti quegli archi narrativi semi-verticali e relativamente scollati l’uno dall’altro mi suonavano vecchi già all’epoca, mentre il ritmo fin troppo veloce non lasciava respirare a sufficienza il racconto, né permetteva ai personaggi di esprimesi. Anche l’apparato filosofico, tutto sommato, era rozzo, e comunque non all’altezza di opere più o meno coetanee come Akira o Ghost in the Shell, giusto per citare altri cult dell’epoca. Insomma, un grosso “boh”, che mi sono trascinato dietro per anni.

La città di Salem incombe costantemente sulla discarica.

Per vedere se c’era modo di revisionare un po’ la mia opinione, quando giopep ha buttato nel piatto la Cover Story di questo mese, ho alzato la manina e mi sono messo di buzzo buono a rileggere il manga, ché se certe cose uno non se le impone, finisce che poi non le fa.

Immergendomi dopo tanti anni nei primi volumi di Alita, ho ritrovato intatta la potenza di certe trovate, come il cannone gigante o la Salem incombente che non si svela mai. Anche il discorso del rapporto tra carne, anima e acciaio che avvolge tutta la storia mi è piaciuto, persino più di prima. I corpi dei personaggi sono fluidi e interscambiabili come nei film di Tsukamoto o in quelli di Cronenberg, le mutilazioni reversibili come nelle fiabe, e in generale tutta l’iconografia del manga, nella sua semplicità, ha ancora il suo perché.

Il fuoco e l'acciaio sono due elementi chiave, nell'immaginario di Alita.

Tuttavia, se da una parte ho avuto modo di inquadrare meglio quanto di buono contenessero quelle pagine ormai ingiallite, dall’altra tutti i problemi di scrittura mi sono parsi persino più indigesti di prima. La storia, la caratterizzazione dei personaggi e il ritmo sono davvero invecchiati male, e in più di un passaggio mi sono chiesto “perché?”. C’è di buono che il ripasso mi ha fatto venire una gran voglia di correre al cinema a vedere il film di Rodriguez, perché al di là del mio rapporto tribolato col manga, ho la sensazione che una dimensione narrativa più compressa potrebbe giovare al racconto. In più, lo sguardo del cineasta texano mi sembra in linea con quello di Kishiro; insomma, ci voglio credere.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.