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Racconti dall'ospizio #171: Orrori tridimensionali vintage

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Nel 1992, Frédérick Raynal e Infogrames definirono senza nemmeno rendersene conto quelli che quatrro anni dopo sarebbero diventati i punti cardine del survival horror, termine coniato da chi, in Giappone, avrebbe ricalcato pesantemente l'opera francese. Prima di Alone in the Dark esistevano già videogiochi che oggi potremmo infilare alla lontana sotto l'ombrellone dei survival horror. Così, senza pensarci troppo, mi vengono in mente Project Firestart e quello Sweet Home che uno Shinji Mikami limitato da imposizioni contrattuali avrebbe insistito per anni a indicare come unica fonte d'ispirazione per il suo Resident Evil. Ma con Alone in the Dark ebbe inizio qualcosa di preciso, come fra l’altro gli è stato perfino riconosciuto nel 2008 dal Guinnes dei primati, che lo indica come primo survival horror 3D della storia.

Pur all'interno dei confini dettati dai limiti dell'epoca, nel gioco di Raynal c'erano bene o male tutti gli elementi che poi, a fine anni Novanta, avremmo imparato ad associare al genere: un'atmosfera lugubre, in questo caso anche figlia dell’ambientazione nei tenebrosi anni Venti; un sistema di controllo farraginoso, lento, più da avventura che da azione; un orrore che mescola in egual misura gli spaventi improvvisi, l'accumulo di tensione, il non mostrato, la voglia di inquietare sottilmente; un lavoro significativo sul world building; un elemento avventuroso basato su enigmi surreali; una narrazione cinematografica piuttosto curata; un utilizzo della telecamera fuori di testa, che mira a suggestionare ma anche ad incrementare la tensione; una componente action non preponderante ma significativa. Inoltre, rispetto al suo emulo di quattro anni dopo, il gioco di Raynal aveva una struttura adventure molto più complessa e raffinata, con diversi approcci per ogni singolo enigma e una maniera subdola di premiare chi usava il cervello e penalizzare chi si affidava alle armi. Insomma, Alone in the Dark era un capolavoro ed ebbe il successo che si meritava. Tra l’altro, qui ne ho raccontato il post mortem.

Dopo quel successo, Infogrames non poté che mettere in cantiere un seguito ma Raynal abbandonò in fretta il progetto per andare a fondare, assieme a dei fidi compari, Adeline Software, sussidiaria di Delphine Software a cui dobbiamo Little Big Adventure, serie di minor successo ma comunque piccolo culto. Nel frattempo, come detto, Infogrames portò avanti il marchio Alone in the Dark, seguendo una strada paradossalmente non troppo dissimile da quella che avrebbe poi segnato anche Resident Evil: la struttura da arcade adventure abbandonò sempre più la seconda parola in favore della prima; l’incedere quasi aperto del gioco, con discreta libertà di esplorazione, sparì mano a mano, dando spazio a una forte linearità; l’impianto horror si allontanò sempre più dall’impostazione solenne e inquietante dell’esordio, per spingere verso un casinaccio camp.

Alone in the Dark 2 non era assolutamente un brutto gioco, anzi, nonostante lo sviluppo travagliato, Infogrames riuscì a tirar fuori una bella avventura d’azione, che aveva il solo limite di dover essere un po’ presa per i fatti suoi, senza aspettarsi qualcosa di simile al primo capitolo. Perché, sì, l’atmosfera era completamente diversa, con l’oscura magione densa di inquietudini che lasciava spazio a una villa (più giardino e galeone pirata sotterraneo) popolata da dei… mmm… come dire… mafiosi zombi (vudù) senzienti veramente buffi e allucinati. E, sì, pur non mancando assolutamente gli enigmi, c’era molta più azione, fosse anche solo perché la disponibilità di armi e, soprattutto, munizioni era molto meno scarsa.

Il gioco, però, era davvero buono e l’atmosfera horror riusciva comunque a insinuarsi fra le pieghe delle stupidaggini, perché la struttura di base continuava ad essere quella (che ancora non consideravamo) da survival horror: si moriva, tanto e facilmente, al punto che, armi o meno, era spesso preferibile fare i prudenti. Inoltre, Alone in the Dark 2 aveva un’idea fenomenale (che, di nuovo, avremmo ritrovato declinata in vari modi nei survival horror a venire): le sezioni in cui si controllava la piccola Grace Saunders, bambina rapita dai mafiosi maledetti, lei davvero completamente indifesa e per questo più spaventosa da controllare. Fu anche protagonista di un piccolo prologo promozionale, Jack in the Dark, che la vedeva intrappolata in un negozio di giocattoli posseduti durante la notte di Halloween. Mi sale l’inquietudine solo a scriverlo.

Il terzo episodio di Alone in the Dark fu quello con cui Infogrames la buttò definitivamente per aria: siamo ormai nel 1925 ed Edward Carnby, già protagonista dei primi due giochi e ormai appuntato detective del sovrannaturale, viene chiamato ad investigare sulla scomparsa di una troupe cinematografica impegnata nelle riprese di un film nel villaggio fantasma di Slaughter Gulch, in pieno deserto del Mojave. Fra gli scomparsi, tra l’altro, c’è Emily Hartwood, coprotagonista e secondo personaggio selezionabile (sempre a proposito di cose avanti rispetto ai tempi) del primo Alone in the Dark. Dopo gli orrori lovecraftiani - ma senza licenza ufficiale - del primo gioco e la deriva vudù del secondo, quindi, si passa alla cittadina infestata dai fantasmi cowboy. O qualcosa del genere.

Prevedibilmente, la presenza di pistoleri sovrannaturali e l’ambientazione desertica, solare, mettono in chiaro fin dal primo istante che non siamo di fronte a un ritorno alle origini: anche questa volta c’è parecchia azione e le inquietudini non sono esagerate. Il gioco, comunque, nel suo lento incedere, propone anche i tradizionali zombi claudicanti e perfino dei mostri mutanti radioattivi, giusto per non farsi mancare nulla nel gruppone delle cose che ritroveremo poi in Resident Evil. Fu tra l’altro il primo Alone in the Dark a uscire solo su CD-ROM, con quindi un bel balzo qualitativo sul fronte della colonna sonora e i dialoghi interamente doppiati, e anche il primo a non uscire su console, ambito nel quale non aveva mai riscosso grande successo.

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Era un bel gioco? Beh, ammetto onestamente di ricordarlo con meno affetto rispetto ai precedenti e ricordo anche che il definitivo abbandono delle inquietudini più spinte lo fece bocciare abbastanza dalla critica. Non aiutò una certa arretratezza tecnica, con un motore grafico che non sembrava avere fatto grossi passi avanti rispetto al passato. Insomma, per quanto possa apparire paradossale, considerando il successo che avrebbe graziato Resident Evil due anni dopo, nel 1994, Alone in the Dark iniziava a risultare un po’ anacronistico. Eppure, soprattutto rivisto con l’occhio da archeologo contemporaneo che sa contestualizzare nell’epoca di riferimento senza patirne le aspettative, è invecchiato ma non è un gioco brutto. Ha diversi spunti interessanti e, se ci si immerge nella sua atmosfera assolutamente camp, sa regalare qualche soddisfazione. Oltretutto, avere lo sguardo contemporaneo significa anche conoscere gli abissi in cui si è immersa la serie quando, nel decennio successivo, ha un po’ mestamente provato a rilanciarsi sull’onda dei Resident Evil. Quindi, insomma, al confronto, avercene, di Alone in the Dark 3.

E questo qua sopra sono io che cerco di mostrarvi quanto sia bella la raccolta della trilogia che si illumina al buio e ti inquieta quando vai a dormire.

Se volete recuperare gli Alone in the Dark originali, li trovate su GOG. Questo articolo fa parte della Cover Story più veloce del West, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.