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Amy Hennig a ruota libera sul palco del Reboot Develop Blue 2019

Fra gli ospiti di maggior rilievo presenti al Reboot Develop Blue 2019, c’era sicuramente Amy Hennig, veterana del settore con trent’anni di carriera alle spalle, che ha lavorato in praticamente tutti i ruoli possibili, tranne quello di programmatrice, e sul palco dello Sheraton di Dubrovnik ha chiacchierato e risposto a domande sulla sua carriera, sullo stato del settore e altro. Hennig ha iniziato nel 1989 in Atari, per poi spostarsi in Electronic Arts a lavorare sulla grafica del mai pubblicato The Bard’s Tale IV (non quello uscito di recente) e di Desert Strike. Successivamente, è finita a lavorare in Crystal Dynamics e Naughty Dog, ha occupato ruoli da designer, lead designer, director, cosa che le ha permesso di dedicarsi anche della scrittura, e ha impreziosito il suo curriculum con la serie di Legacy of Kain e Jak 3, prima di giocare un ruolo fondamentale nella creazione di Uncharted e nella sua conduzione durante l’era PlayStation 3.

Ovviamente, Uncharted è il suo gioco più famoso (anche se l’amore per Legacy of Kain non manca) ed è una serie che ha segnato un’evoluzione incredibile, nell’arco di tre episodi, sul piano della qualità tecnica e della competenza nel portare avanti un certo tipo di gameplay e di narrazione interattiva. «Fa impressione mettere di fianco il primo Uncharted e The Last of Us, pensando che li ha sviluppati lo stesso studio sullo stesso hardware». Ma secondo Hennig, oggi, siamo arrivati a un nuovo, possibile punto di svolta. Il mercato dei blockbuster si è evoluto verso produzioni sempre più ambiziose, enormi, e titoli come Uncharted 4, il nuovo God of War, lo Spider-Man di Insomniac, sono enormi, raddoppiati nelle dimensioni rispetto ai giochi di dieci anni fa. E ovviamente sono raddoppiati i tempi di sviluppo, così come le dimensioni degli studi sono forse anche più che raddoppiate. I costi salgono ma il prezzo dei giochi rimane più o meno costante, e «giustamente, nessuno vuole che salga». Questo, però, crea una situazione complicata, in cui ogni nuovo grosso progetto è una scommessa enorme, rischiosissima in caso di fallimento.

A questo si aggiungono altre forme di pressione, come per esempio quella che negli anni è stata portata dal mercato dell’usato, da Gamestop, dall’idea che un gioco con un inizio e una fine venga percepito come noleggiabile e/o rivendibile. E, di nuovo, non c’è necessariamente nulla di male, ma si tratta di cose che aggiungono rischi, pressione, difficoltà. Ed è per questo che si vedono i publisher ragionare sul valore – effettivo e percepito – di ciò che vendono, sperimentare con nuove forme di monetizzazione, i giochi inquadrati come servizi, le microtransazioni, i DLC, i season pass e via dicendo.

«Siamo passati a creare esperienze che non hanno una fine e, da persona che scrive storie, è una situazione strana. Non è necessariamente frustrante creare giochi enormi pieni di contenuti visti da una minoranza, ma sappiamo che i giochi vengono completati da meno della metà dei giocatori e si tratta di un tema che magari è poco elegante discutere pubblicamente ma del quale si chiacchiera tantissimo dietro le quinte.”

«Quando la gente mi dice che Red Dead Redemption 2 diventa splendido dopo trenta ore, io muoio un po’ dentro.»

L’impressione, secondo Amy Hennig, è che in ambito mainstream non si faccia tutto quello che si potrebbe fare, non si sperimenti abbastanza con nuove formule, esista solo il megablockbuster, con tutto ciò che quel genere di produzione comporta in termini di scommessa. «E io ammiro quelle produzioni, sono incredibili, ma rimpiango di non avere tempo per gustarmele e mi chiedo come mi faccia sentire, da creatrice, l’idea che ci sia tanta gente come me a cui non si rivolgono». In questo periodo in cui la proposta è mostruosamente abbondante, secondo Hennig, il videogioco dovrebbe imparare da altri medium non tanto nella sostanza dei contenuti ma nella varietà, versatilità, nella capacità di proporre anche cose più esili e digeribili. E in questo senso ha menzionato la struttura degli Uncharted, in cui ogni capitolo aveva più o meno la durata di un episodio da serie TV. Era una cosa che rendeva la fruizione croccante.

Hennig, comunque, è molto intrigata dalla convergenza fra i medium. Bandersnatch, per esempio, a prescindere dall’apprezzamento per i risultati, è interessante per due motivi. Il primo è che è, in una certa misura, un videogioco che ha raggiunto i non giocatori, “nascondendosi” dentro a un telecomando, dentro a Netflix, dentro a strumenti che non respingono come un controller classico. E questo nonostante abbia elementi di frustrazione, per un non giocatore, per esempio nel modo in cui, quando ti spedisce indietro, temi di aver fallito e inizi a chiederti quanto durerà (cose che non succedono, di solito, quando guardi qualcosa su Netflix). Inoltre, è interessante perché è costruito in maniera inversa rispetto a un videogioco, dove tipicamente c’è una storia strutturata, chiara, con un percorso definito, e il giocatore può muoversi e fare scelte fra le varie parti “fisse” della storia. Florence, per esempio, fa esattamente quello. La storia è fissa ma l’esperienza è unica. Bandersnatch, invece, ti fa guardare passivamente le parti a cui normalmente giocheresti e ti fa prendere decisioni nelle parti che in un videogioco sarebbero fisse.

Ma Bandersnatch è interessante anche in ottica futura, per l’idea del videogioco che abbraccerà veramente lo streaming, magari quando le connessioni 5G saranno realmente diffuse, al fine di proporre però non questi contenuti lineari, ma contenuti in tempo reale, videogiochi veri e propri. Sarebbe uno spazio completamente nuovo, in cui cambierebbero i modelli di business e, in una certa misura, probabilmente anche i giocatori. O comunque ne arriverebbero di nuovi. Soprattutto, dal pensiero di Hennig emerge l’idea dello streaming come cavallo di troia, per raggiungere persone che si ritrovano respinte dal modello attuale, a base di controller complicati, hardware dedicato, meccaniche tradizionali, ma sarebbero potenzialmente interessate a questa forma d’intrattenimento. Chiaramente, si tratta di questioni controverse, delicate, ma è un ambito affascinante da esplorare.

Soprattutto, affascina l’idea che tramite le nuove tecnologie si possa raggiungere un pubblico diverso, ampio, di persone che non consideriamo videogiocatori ma in fondo lo sono. Chi gioca col telefono o ai boardgame, è un giocatore. Poco importa se ne sia consapevole. E, dice Hennig, non bisogna convincerli di essere giocatori o convertirli, bisogna solo aprirsi a loro.

«A Hollywood, tutti hanno una divisione dedicata ai prodotti interattivi. Ma non sono in grado di fare quello che facciamo noi. Poi, magari, sono più bravi nella narrazione, ma non hanno la minima idea di come gestire l’interazione e le dinamiche in tempo reale.» E in questo momento storico, secondo Hennig, chi sa operare ad alto livello su tre fronti (narrazione, interazione, tempo reale), ha una grande opportunità, che non bisognerebbe lasciarsi sfuggire. Solo che bisogna avere voglia di creare esperienze più aperte… che, oltretutto, è una cosa che già accade! La scena indie è piena di giochi non concepiti per essere difficili da portare a termine, non pensati per essere sconfitti. «Il videogioco è l’unico medium in cui si utilizza l’espressione “to beat”», eppure, giochi come Florence, Return of the Obra Dinn, What Remains of Edith Finch? non hanno un game over, non permettono di fallire. Ma hanno un altro problema: sono oscuri, non vengono pubblicizzati più di tanto, li scopri perché te li consigliano. Quindi bisogna lavorare su più fronti.

Tutto questo, ovviamente, non significa che secondo Hennig debbano sparire giochi come Celeste o Sekiro: Shadows Die Twice. Ma figuriamoci! Sono fantastici, devono esistere. La resistenza che si incontra quando si parla di eliminare barriere è folle perché il punto non è sostituire, il punto è ampliare, creare giochi che sappiano essere accessibili in aggiunta a quelli che già si fanno. Uncharted ha fatto dei passi in quella direzione, ma senza scrollarsi di dosso una fra le barriere più grandi: come raggiungere quel pubblico potenziale, che non ha intenzione di comprare hardware dedicato, e, soprattutto, non vuole impegnarsi a imparare ad usare un controller? «Gli smartphone sono in tasca a tutti: usiamoli come strumenti di controllo!» Secondo Hennig, piattaforme come Stadia aprono, in potenza, parecchie porte, perché eliminano molti costi e molti limiti hardware e possono raggiungere più gente su dispositivi che già hanno per le mani, o magari in tasca. Stadia, però, è stato presentato mostrando giochi molto tradizionali… e va bene, significa parlare una lingua nota, ma il passo successivo è provare a fare cose nuove e diverse. Continuare a fare solo le stesse cose eliminando le barriere hardware è già un bel passo intrigante, ma poi bisogna anche immaginarsi dei contenuti nuovi.

Sarà quindi importante provare a capire come usare questi servizi per raggiungere diversi tipi di pubblico. Per servire in maniera più capillare e trasversale giochi tradizionali, certo, ma anche per raggiungere un pubblico diverso, quel pubblico che apprezza Uncharted, Until Dawn, Detroit: Become Human da spettatore, osservando il “gamer” di famiglia, perché respinto dalle barriere tradizionali. È un fenomeno noto e riconosciuto, quello del membro della famiglia che apprezza quei giochi limitandosi a guardare, e Hennig si chiede perché questa cosa debba accadere per caso, quasi non voluta, e non possa essere invece un obiettivo di design, un target a cui mirare.

Poi, ovviamente, in queste tecnologie così promettenti, ci sono dubbi, limiti, questioni da affrontare. Lo spettro dei videogiochi in streaming, disponibili su servizi di abbonamento, con gli sviluppatori retribuiti a consumo, è abbastanza inquietante, per le conseguenze che avrebbe sul game design (e certo non andrebbe a supporto dei giochi che piacciono a Amy Hennig). E poi c’è la realtà virtuale, sulla carta arma notevole per l’apertura grazie ai suoi sistemi di controllo organici, basati sui gesti, accessibili. Ma siamo troppo indietro, è ancora troppo isolante, troppo scomoda, troppo lontana: si evolverà… però c’è la sensazione di essere all’inizio di qualcosa di grosso, una nuova frontiera, esattamente come quando Amy Hennig iniziò la sua carriera trent’anni fa.