Outcast

View Original

Asteroids, o meglio, Asterock. E Mauri | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Era bello, a Villanova di Borca. Non c'era niente da fare, la sera. Di giorno si andava a sciare. La sera si stava all'albergo. Non c'era, per dire, un locale, un bar nei dintorni. C'era, sì, un bar. Era quello dell'albergo.

L'albergo in cui soggiornavamo. Che era l'unico albergo di Villanova di Borca.

Era bella, Villanova di Borca. Non c'era niente da vedere guardando fuori dalla finestra dell'albergo. Non c'era niente che volesse farsi vedere. Solo tanta, tanta neve. Stava essendo un inverno nevosamente copioso. O copiosamente nevoso. Poi, sì, a voler guardare bene, si potevano scorgere i tronchi degli alberi, una fontana di pietra, le auto che lottavano contro l’indegna sepoltura della neve. Ma questo di giorno, e noi di giorno eravamo a sciare. La sera, quando tornavamo all’albergo, era già buio. Era gennaio e fuori dalla finestra, alle sei di sera ad essere precisi, non è che non ci fosse niente da vedere, non esisteva niente. Non esisteva nemmeno la finestra.

Esisteva un’altra finestra, però. Il tubo catodico del cabinato del bar dell’albergo. Tuttavia, si trattava di Asteroids, anzi, di una copia chiamata Asterock, prodotta illegalmente a Torino da una ditta che si chiamava Sidam, che all’epoca aveva scatenato un putiferio legale, perché un’altra ditta italiana, la Bertolino, deteneva i diritti per la produzione in loco dell’Asteroids Atari. Si trattò di una causa molto importante in materia di storia del diritto d’autore videoludico, un precedente che sancì eccetera

La pietra dello scandalo.

Non sapevo niente, di tutto ciò, di fronte ad Asterock, a Villanova di Borca, nel 1989. Santiddio! Che leggero, il mio fardello, e dir che mi pareva sì pesante, sì stereotipicamente adolescenziale. Non apprezzavo la scintillante assenza di nozionismo, anzi, bramavo di divenire un nozionista nel minor tempo possibile, perché chiamavo il nozionismo “conoscenza”, “sapere”, “cultura”. Ero giovane, insomma, e determinato: pertanto, invecchiando, sono diventato con esemplare perseveranza un trombone. Paraculo lo ero già, ma allora, come ancora oggi, almeno riuscivo a trovare nel bianco della neve e nel vuoto del silenzio un quanto di sollievo alla mia pena.

Sapevo solo che di Asterock non me ne fregava niente. Era, nel 1989, troppo poco nuovo per sembrarmi eccitante e troppo poco vecchio per sembrarmi classico. Il tubo catodico era una finestra, quello sempre, ma il panorama non era particolarmente interessante. Vuoi mettere con un Ghouls’n Ghosts. Vuoi mettere con una qualsiasi delle fetecchie recenti, a dirla tutta. Che beffa, che l’unico tubo catodico dell’unico cabinato dell’unico bar dell’unico albergo fosse una finestra su un mondo a me invisibile.

Ed è in questo contesto che arrivò Mauri. Mauri aveva ai miei occhi l’aria del forestiero, il che era ovviamente un’idiozia, visto che il forestiero ero io, a Villanova di Borca, mentre la barista che non voleva fare la barista lo salutava con: ciao, Mauri. Gli stivaloni da lavoro un tempo verde oliva, oramai quasi grigio topo, che batteva con zelo sullo zerbinaccio all’entrata del bar, mi avrebbero dovuto far intuire che proveniva con ogni probabilità da una qualche azienda poco lontana. Finiva di lavorare e passava al bar, che era pur sempre l’unico di Villanova di Borca. Questo lo deduco ora, s’intende. All’epoca, questo tipo di noiose riflessioni su chi è/cosa fa/dove lavora non mi toccavano. Tantomeno con Mauri. D’altro canto, Mauri mi spiazzò in maniera talmente subitanea che non pensai più a lui se non in termini di Leggenda, di Portatore del Verbo, di Apritore di Occhi, di Parabola Vivente.

Perché Mauri, pulite che furono le suole degli stivali, salutata che ebbe la barista che non voleva fare la barista, senza manco togliersi il piumino blu liso oramai azzurrino, si mise a giocare ad Asterock. Non è che ci sia granché di sorprendente, né in Asteroids, né tantomeno in Asterock e tantopiù nel 1989, dieci anni dopo l’uscita. In due minuti capisci le dinamiche di gioco, hai sentito tutti i suoni, hai visto tutte le rocce spaziali frantumarsi e la sporadica, fastidiosa astronave nemica di pattuglia. Forse hai fatto anche in tempo a dire che preferisci Blasteroids, l’agghiacciante remake del 1987, tanto per darti un tono. Mauri, però, nei primi due minuti della sua partita, chiarì subito di non essere del partito dei quaqquaraqquà ma di quello dei masculi, come si sarebbe detto a ben altre latitudini. Il chiarimento passò innanzitutto dalla sua laconica assenza assoluta di loquacità. A pensarci, era solo al cabinato, con chi avrebbe dovuto parlare? Ma non era nemmeno quello, è che il suo silenzio era pieno. Non era il silenzio dell’aria, era il silenzio della neve. Riempiva la stanza, totalmente. Perfino i suoni di Asterock sembravano ovattarsi al cospetto del suo silenzio. Ma non abbastanza da non incuriosirmi, anche se ero distante dal cabinato. Perché c’erano così tanti suoni, rispetto a una mia partita? Proprio in termini di quantità di suoni PLAYATI fratto tempo. Pew pew pwe Boom bo bo bo bo booom booom. Poi un attimo di silenzio. Poi riprendeva la baraonda sonica. Poi un attimo di silenzio. Sembrava quasi che Mauri stesse completando un livello dopo l’altro come in fast forward, uno dopo l’altro, a un ritmo irreale.

Mi avvicinai. Guardai lo schermo di Asterock e la vidi. Vidi la performance.

Il fatto è che Mauri stava effettivamente completando un livello dopo l’altro come in fast forward, uno dopo l’altro, a un ritmo irreale. Per ogni asteroide colpito, Mauri precalcolava le traiettorie che avrebbero assunto gli astroliti derivanti dall’esplosione e ruotava l’asse dell’astronave per modulare una salva di spari che li frammentasse a loro volta. Non è possibile saturare di proiettili lo schermo, in Asteroids, quindi Mauri operava la manovra molto vicino al bersaglio, facendo scivolare lateralmente il proprio velivolo a velocità sostenuta, per andare sempre a segno e quindi, eliminando dallo schermo un proiettile, poterne sparare subito un altro.

Tutto questo con il sistema di controllo relativo di Asteroids. Un gioco in cui hai due tasti per ruotare su te stesso a destra e a sinistra e uno per accelerare o, meglio, pattinare nello spazio infinito, sospinto dalla stessa inerzia che ha fatto precipitare Lucifero all’inferno.

In due minuti, Mauri aveva messo in chiaro chi fosse. Chi fosse Mauri, ma soprattutto chi fosse Asteroids. Perché un gioco, qualsiasi gioco, animato e vivificato da una performance di livello, si mostra per quello che è realmente - un quadro che ha bisogno di essere ridipinto costantemente affinché la sua arte continui a splendere, il suo genio continui ad ardere. Solo e triste in un angolo del bar, il cabinato di Asterock era un perdente a cui nessuno avrebbe voluto offrire manco un calice di bianco. Insieme a Mauri, era diventato una ballerina di tango scatenata, in the zone, se non solo, soprattutto perché il maestro sì che sapeva farle fare il casqué.

Mauri non moriva mai. Era completamente nel flusso trigonometrico di parabole e traiettorie. Rischiava in maniera sconcertante e non capii subito il perché, giacché Asteroids è un gioco che premia le strategie conservative e la resistenza. Chi glielo faceva fare di correre tanto, di bruciare livello dopo livello? Realizzai il suo gioco, anzi, il suo metagioco, solo quando, a mezzanotte, la barista che non voleva fare la barista si avvicinò timidamente a Mauri e Asterock, avvinti nel loro elegante tango, e disse soltanto “Mauri, è ora”.

Lui, senza dire parola, di botto spense il cabinato. Click. Il tubo catodico vettoriale fece convergere tutte le sue linee in un unico punto al centro dello schermo, che sembrava quasi il preludio a un’esplosione. E invece no, il punto bianco sfumò lentamente, con me impietrito a guardarlo svanire. Mauri giocava a livelli. Sapeva di avere tempo fino a mezzanotte. Di non poter certo stare tre giorni incollato al cabinato, cosa necessaria per battere il record di quaranta e passa milioni ottenuto nel 1982 da un quindicenne di Portland, Oregon. Mauri manco sapeva che esistessero i record mondiali dei videogiochi. In verità, era palese che Mauri non sapeva nemmeno dell’esistenza dei videogiochi - del concetto di medium videoludico. Quello era un gioco, come il calcetto, come le carte, da tempo per lui immemore presente nel bar dell’albergo. C’era chi giocava a carte, chi a calcetto, Mauri giocava ad Asteroids, ogni giorno feriale, da chissà quanti anni. E, sapendo che a mezzanotte si chiude, a mezzanotte chiudeva la partita, constatava mentalmente quanti livelli era riuscito a superare e la cosa finiva lì. Fino al giorno feriale successivo.

L’epifania di Mauri e Asterock avvenne di lunedì. Passai qualche altro giorno a Villanova di Borca e ogni sera guardavo Mauri giocare. Non ci parlavamo, non gli parlavo, ero impietrito dal rispetto, lui, be’, non so se fosse timido, non avesse voglia o magari non riuscisse a parlare durante i calcoli balistici. In ogni caso, una cosa mi fu chiara, da allora in poi: due persone che non si parlano, non si stanno parlando, con tutto ciò che ne consegue. E Mauri nemmeno sembrava gongolare segretamente in cuor suo della mia deferenza. Nemmeno si può dire che non glie ne fregasse niente in maniera sprezzante. Che sia questo, lo zen? Ma soprattutto: Mauri era un diminutivo del nome o il cognome? Rimasi là, col mio carico di silenzio spompo e basito, mentre Mauri si portava fuori il suo, di silenzio, pieno come la neve.

Era silenziosa, Villanova di Borca, ma mi ha insegnato che ogni persona che non dice colora il suo silenzio di una luce, di una densità e di un suono differenti. Non ci vado da tanti anni e se da un lato mi piace immaginare un Mauri canuto che ancora esegue il suo rituale alla perfezione, dall’altro temo che il silenzio sulla vallata sia diventato di nuovo uno solo, levigato dallo scrosciare del fiume poco distante, e che non ci sia più nessuno, non l’unico bar, non l’unico albergo, non Mauri, non Asterock. E nemmeno la barista. Che, d’altro canto, mica la voleva fare, la barista.