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Attack of the Karens: le Karen sono intorno a noi e non lo sapevo!

Nota del capo: sono stato un po’ combattuto sul pubblicare o meno questo articolo, a causa del fatto che il termine Karen, come spesso avviene, negli anni ha preso la classica deriva fuori controllo e, da presa in giro magari anche innocente, è diventato un cliché sessista fin troppo abusato. D’altro canto, Gianni voleva parlare di un gioco che ha trovato gradevole e non fuori luogo e ho deciso di fidarmi di lui. Fatemi pure sapere se ho sbagliato. :D

La settimana scorsa, come quasi tutti i venerdì pomeriggio, entro con mia figlia in un locale tutt’altro che fighetto, una specie di bar/panetteria/drogheria/forno dove fanno pure le serate karaoke. Il posto giusto dove fare una pausa merenda dopo l’uscita della scuola e prima della lezione di danza: le pizzette costano meno di un euro, le bevande te le prendi da solo dal frigo, i proprietari sono alla mano e sorridenti. Di solito è frequentato da giovani che bevono Moretti da 66 alle quattro del pomeriggio o famigliole che si fermano per prendere una pagnotta di pane. Quando ci accomodiamo, il mio occhio cade subito su una figura del tutto stonata. Sullo sgabello del bancone era seduta in posa plastica una signora di mezza età, alta, bionda, con un taglio bob medio (quello che una volta veniva chiamato caschetto, per intenderci) che sembrava appena uscita dall’hairdresser (non chiamatelo più parrucchiere, si offenderebbe). Vestita tutta di nero, con un paio di pantaloni attillati in similpelle e sopra un paio di stivali alti quasi fino al ginocchio, dove risaltavano di un oro accecante le lettere metalliche P O L L I N I. Al braccio una borsa intrecciata di ottima fattura, anch’essa nera, probabilmente Bottega Veneta. Sull’altro polso un vistosissimo bracciale dorato che sembrava un rotolo di scotch, mentre le dita curatissime e laccate giocavano con un paio di luccicanti occhiali da sole di qualche marchio di cui non ricordo il nome. Io ero in tuta e mia figlia col grembiule, ci scambiamo uno sguardo complice e sotto sotto ci chiediamo: e questa chi è? La sua presenza era autoritaria, tutto quel nero e quell’oro erano lì ad indicare potere e lusso e non faceva niente per nasconderlo. Era chiaramente fiera della sua posizione e la ostentava con fare quasi arrogante. Ordina un caffè, poi riceve una telefonata, dà un paio di indicazioni e dopo qualche minuto si palesa una sua amica, leggermente più giovane ma anche lei vestita di tutto punto e rigorosamente in nero! Chiede una Coca, e quando la barista gentilmente le dice di prenderla nella frigo vetrina, interviene subito la sua amica con un sarcastico “Qui purtroppo non ti servono”.

Le boss fight sono divise in quattro fasi, durante le quali le Karen mutano forma.

Ecco, avevo di fronte una Karen e non lo sapevo. Le Karen sono dappertutto, non solo in America. Wikipedia le definisce così: “Karen is a term used as slang typically for a middle-class white American woman who is perceived as entitled or excessively demanding beyond the scope of what is considered to be normal behavior and decorum. The term is often portrayed in memes depicting middle-class white women who "use their white and class privilege to demand their own way". Depictions include demanding to "speak to the manager", being racist, or wearing a particular bob cut hairstyle.” Le Karen (non necessariamente donne, eh! può essere usato anche per i maschi, vedi Trump e Musk) sono persone che si credono speciali, che tutto debba ruotare intorno a loro, che si arrogano il diritto di lamentarsi anche per cose futili, che sono disposte a sminuire gli altri pur di raggiungere i propri fini. Le Karen non mi stanno simpatiche. Ma non potendo prenderle a schiaffi nella vita reale, ho deciso di sfogare la mia rabbia in un videogioco. Sì, ed è fantastico.

Marva è forse quella che mi ha dato più filo da torcere.

Le origini del meme Karen sono indefinite, ma tra le tante ipotesi ce n’è una che chiama in causa niente popo’ di meno che Nintendo e il trailer di lancio di Switch nel 2016. Ad un certo punto compare una ragazza ben vestita, chic, raffinata, con un taglio di capelli a caschetto, che sta giocando a Super Mario Odyssey nel suo loft fighetto. Quando viene invitata dai suoi amici che stanno organizzando una festa sul terrazzo vicino, non ci pensa due volte, stacca la console dal dock e se la porta dietro, mettendosi a giocare in piedi in modalità co-op con una ragazza, mentre gli altri guardano incuriositi alle loro spalle, con il tradizionale bicchiere rosso in mano. Questa la reazione immediata dell’utente Joematar su Tumblr.

Lei è la Karen della grande N

A otto anni di distanza, il cerchio si chiude. Attack of the Karens è da poco sbarcato su Nintendo Switch, dopo il debutto su Steam a fine 2023. Quindi, se avete come me anche una minima avversione verso le Karen e siete possessori di Switch, non avete più scuse, non vi resta che sbarazzarvene una volte per tutte. In questo shoot ’em up a scorrimento orizzontale, infatti, lo scopo principale è far fuori letteralmente a colpi di laser quattro Karen, mutate in potenti cyborg da un agente patogeno extraterrestre. Abbiamo Tiffany, una imprenditrice che si è fatta da sola e che ha licenziato un terzo del personale solo perché nessuno le aveva fatto un regalo alla festa aziendale; Cassie, una mamma il cui scopo nella vita è accompagnare i figli alle attività sportive, che ha ribaltato un negozio quando ha realizzato che un paio di pantaloni le stavano male; Marva, che crede di sapere tutto e si è fatta un esercito di alligatori; Jordan, una influencer da milioni di follower caduta in disgrazia.

La nostra navicella è davvero scrausa all’inizio, ma con un po’ di acquisti possiamo migliorarla.

Prima di arrivare alle spettacolari boss fight vere e proprie, però, a bordo della nostra piccolissima navicella X-15, dobbiamo affrontare svariati minion, che una volta abbattuti rilasciano degli anelli. Questi vanno a riempire una barra al cui completamento ci rilascia un power up casuale temporaneo. I minion più grandi e le Karens rilasciano anche dei moduli che servono a potenziare in maniera definitiva la nostra navicella. Una volta tornati al menù principale, possiamo decidere di spenderli in maggiori punti salute, maggiore danno del blaster, maggiore velocità della navicella e maggiore cadenza di fuoco. Altri miglioramenti permanenti che si possono sbloccare sono: uno scudo deflettore, dei potenti razzi, delle sfere in grado di assorbire le pallottole. L’ordine in cui si affrontano le quattro Karen è casuale come casuale è l’area dove le incontreremo. Tutto questo aumenta in maniera esponenziale la rigiocabilità, rendendo praticamente ogni run unica. Ho trovato il gioco molto equilibrato, nel senso che non è estremamente punitivo ma neanche troppo bonario, a patto di riuscire a sbloccare tutti i potenziamenti permanenti. Se le cose dovessero sembrare comunque squilibrate, si può ricorrere a dei modificatori, sia in negativo (Kurse) che in positivo (Kushion) ma devo dire che, anche se non sono un professionista dei bullet hell, sono comunque riuscito a portarlo a termine solo attivando il Kushion +3 di salute. Prossimo obiettivo: finirlo puro. 

Tiffany è ossessionata dal denaro.

La grafica in pixel art fa un uso sapiente di solo due colori: il lilla e il verde declinati in poche gradazioni, oltre al bianco e al nero. Questo rende molto leggibile anche le situazioni più affollate. Per fortuna i proiettili nemici lampeggiano, quindi sono facilmente individuabili, anche se in un paio di occasioni ho davvero perso di vista la mia minuscola navicella letteralmente sommersa dal fuoco nemico. Le Karen sono tutte doppiate in maniera credibile e per un gioco di questo budget è davvero una bella sorpresa. Una piacevolissima colonna sonora chiptune accompagna le concitate battaglie. Ora io mi chiedo: cosa volere di più da un gioco che costa meno di 5 euro? Perfetto in modalità portatile, piccole sessioni da 20-30 minuti, sfida equilibrata, un gameplay solido e soddisfacente, tanta ironia raffinata e calata nel reale, ma soprattutto ho potuto riportare le Karen con i piedi per terra, visto che nella vita reale non sempre si può fare, ahimè.