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Barcellona all'ombra del vento

Barcellona è la città straniera nella quale, negli anni, sono tornato più spesso.

All’inizio ci si trasferì mia cugina per via di un master, e non è più tornata. Non nel senso che si è persa in una catena di eventi misteriosi, ma che è rimasta a vivere lì con il compagno; quindi, quando volevo staccare con una via di mezzo tra turismo becero e viaggio culturale, facevo una borsa, prendevo un biglietto e andavo a fare un weekend lungo a Barcellona. Aiutava il fatto che Barcellona è una città “facile”, che parlo ancora uno spagnolo accettabile e che il volo da Napoli dura circa un’ora.

Porgere i miei omaggi a Mies e al suo Padiglione Barcellona. Bere un Negroni nel Jardin del Raval, di quelli con vermut artigianale e oliva. Passare al MACBA, dove i giovani si alternano tra canne e skateboard, o al locale nel Barri Gòtic, dove suonano vinili dal vivo il mercoledì e la domenica.

Altre sono deviazioni tematiche che, di volta in volta, mi portano in posti diversi, lontano dalle rotte più turistiche; come il Ruby, con la sua luce rossa che si rifrange sulla monumentale bottigliera ricolma quasi esclusivamente di gin artigianali di produzione propria; o Absenta, loschissimo localino in stile Belle Époque dove l’ultima volta abbia provato tutte le sfumature dell’assenzio. Tasso alcolemico all’uscita: +999.

Il mio caro Mies.

La priva volta che misi piede a Barcellona, in età quasi impubere, fu con i miei genitori. All’epoca, non avevo ancora avuto modo di leggere niente di Carlos Ruiz Zafón, e fu un soggiorno breve; una visita fuggevole di un viaggio più lungo che, da Barcellona, ci portò a Marbella, e si parla ormai di quindici anni e rotti fa.

Zafón arrivò dopo. Rubai L’ombra del vento a mia nonna, da sempre grande divoratrice di romanzi dall’intreccio sentimentale. Non gli detti credito immediatamente, lo attaccai con una nota di scetticismo. Sta di fatto che il libro me lo intascai, lo lessi e fu una rivelazione emotivamente fortissima. Un po’ mi spiace che quella sgualcita edizione Oscar Mondadori sia andata persa in mano a una delle ragazze che hanno frequentato la mia stanza negli anni immediatamente successivi al diploma.

Non era certo un’edizione che brillasse per traduzione, ma per certi versi molte cose iniziarono da quel libro, graziato anche da una coincidenza anagrafica tra me e il protagonista che già fece la fortuna dei vari Harry Potter.

La trama gira attorno a una losca storia di formazione nella Barcellona franchista - a base di scrittori maledetti e libri bruciati misteriosamente - e a Daniel, il figlio di un libraio che entra in possesso di una romanzo, L’Ombra del vento del titolo, misteriosamente sfuggito al rogo.

Gli elementi per fottermi il cervello c’erano tutti: l’intreccio tra passato e presente; una storia d’amore dai profili tragici, una prosa non stucchevole che si lasciava bere velocemente piena zeppa di dialoghi brillanti. Inoltre, Barcellona era più che uno sfondo, e la trama non avrebbe potuto avere senso in nessun’altra città. Il romanzo, in questo senso, disegnava un mondo vivido che realisticamente proseguiva al di fuori del volume, in maniera naturale. Come se tutte le vicende fossero solo una parte della storia. Ipotesi poi confermata, nel corso degli anni, dalla quadrilogia dedicata al Cimitero dei libri dimenticati.

I viaggi a Barcellona e le rilettura dell’opera di Zafón si sono alternate per anni senza coincidere mai, fino al giugno del 2019. Ero fresco di laurea e mi trovavo in uno di quei pericolosi periodi di stallo che capitano dopo momenti di intensa attività. Senza un obiettivo sul breve periodo mi sentivo come spaesato e svuotato, e mentre mio padre incalzava affinché trovassi una collocazione rispettabile nel mondo, io andavo in ansia; un’ansia ingestibile, molto simile alla paura del vuoto.

Avevo bisogno di staccare.

Caso volle che mia cugina scendesse in Italia, così ne e ho approfittato per risalire con lei e stare via per un weekend. Lontano da casa, in un posto abbastanza familiare da non causarmi troppi sbattimenti, di cui padroneggiassi la lingua abbastanza da non essere arrestato o menato.

Cadeva la festa di San Juan, il corrispettivo spagnolo del ferragosto, e a Barcellona si festeggia sulla Barceloneta, con i chiringuito della spiaggia trasformati in scatole di casse che pompano musica elettronica, e i cui bassi fanno vibrare la sabbia tutta intorno.

Ritrovarsi in quel casino fu straniante, a tratti allucinante.

Durante quei giorni non avevo veramente una meta o un’itinerario, e finii per cadere in un vortice di letture confortevoli, tra le quali, Zafon. Incedere tra le sue pagine era puro escapismo, e ritrovarmi nella città di cui racconta le vicende fu una sensazione incredibilmente potente.

Non so come mi venne in mente di prendere nota delle indicazioni geografiche accurate degli spostamenti del protagonista per la sua Barcellona, sta di fatto che mi posi l’obiettivo - per quanto impossibile e assurdo - di seguire quei passi; di voler vivere la storia al di fuori delle pagine utilizzando il libro come una guida turistica.

Ritrovai alcuni dei punti citati provando a seguire le svolte delle strade come indicato nel libro, ma nell’intrigo impietoso della città vecchia è impossibile trovare un luogo di fantasia, per quanto la sua collocazione sia accuratamente riportata. È stato un gioco divertente muoversi per le strade di una città che conoscevo cercandone un’altra di cui avevo solo letto e che, il tempo e la gentrificazione, hanno quasi cancellato.

Ovviamente Barcellona non è più quella del periodo di Franco. Non è più nemmeno la stessa città nella quale andai la prima volta. O la seconda. O la terza.

Il tempo è implacabile, cambia la città seguendo onde economiche; anche una popolazione sbandata e resiliente al cambiamento come quella del Raval viene logorata dalla marea di novità che la nuova Barcellona porta in dote, quando decide di arrivare fino a lì.

Ogni volta che visito Barcellona è come dialogare con il passato: il mio, recente, e quello della città, con i suoi quartieri sovrapposti appartenenti a epoche diversissime. Attraversando una strada o svoltando in un vicolo questa sovrapposizione di epoche diventa uno spazio fisico sospeso tra passato e presente. Le guglie del Barrio Gotico convivono serenamente, degradando verso nord, con la rigida organizzazione di Ildefons Cerdà, del Passeig de Gràcia, per poi tornare quasi allo stato di natura primigenia degli interventi di Gaudì. E queste epoche storiche che hanno la solida materialità dei luoghi orbitano tutti intorno al nucleo caotico della Plaça de Catalunya.

E quindi sono lì, nel mio tempo che è lo stesso del libro del quale seguo i passi, posando gli occhi dove si sono posati quelli di Zafón quando scelse dove collocare il suo Cimitero dei libri dimenticati; gli occhi che Daniel non può avere sul mondo, limitato com'è nella sua vita fatta di carta, inchiostro e ricordi.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Turisti per caso”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.