BlacKkKlansman, o del perché Spike Lee non uscirebbe a cena con Salvini
Nel 1978, Ron Stallworth lavora come detective per la polizia di Colorado Springs. Fin dai tempi dell’addestramento, sogna di diventare un agente infiltrato, di fare la differenza, e l’occasione giusta gli si presenta una mattina di ottobre, attraverso l’annuncio pubblicato su un giornale locale. A scrivere è una divisione del Ku Klux Klan in cerca di nuovi adepti:
Quell’anno la lotta per i diritti civili è al culmine, l’America è impicciata nella più severa crisi economica dal 1939 e l’incertezza dilagante favorisce ondate di violenza e razzismo. Atti di terrorismo, linciaggi e persino omicidi messi in atto da organizzazioni di estrema destra e dai cosiddetti suprematisti bianchi sono all’ordine del giorno. Dall’altro lato della barricata, attivisti come Kwame Ture parlano di “black power” e, mentre le Pantere Nere vengono messe a ferro e fuoco dall’FBI, i militanti si dividono tra fazioni non violente ispirate agli ideali di Martin Luther King e altre più interventiste.
Quando Stallworth decide di mettersi in contatto con il Ku Kux Klan, tutte queste cose le conosce fin troppo bene, visto che è un agente di colore - il primo del suo distretto - con già qualche esperienza da infiltrato alle spalle. Quando risponde all’annuncio, dice di essere un “uomo bianco che odia negri, ispanici, cinesi, ebrei, giapponesi e chiunque non appartenga alla pura razza ariana come me”.
Quella chiamata è il primo passo di una lunga e complicata indagine che, nel giro di qualche mese, condurrà Stallworth e alcuni colleghi fin dentro la tana del lupo e, circa quarant’anni dopo, fornirà a Spike Lee l’occasione di girare uno tra i migliori film della sua carriera.
Prodotto dai tipi di Blumhouse e modellato sulla biografia di Stallworth dagli sceneggiatori Charlie Wachtel, David Rabinowitz e Kevin Willmott, oltre che dallo stesso Lee, BlacKkKlansman utilizza un linguaggio da film polizesco per raccontare le idiosincrasie dell’America di oggi attraverso quella di ieri l’altro, cercando di risalire fino alla sorgente dell’intolleranza che ha favorito l’ascesa dell’”agent orange” e portato all’attentato di Charlottesville del 2017 (evocato direttamente in coda al film).
Inevitabilmente, BlacKkKlansman parla di diversità, di zone di grigio e di conflitti che si innescano anche tra uomini che militano nella medesima fazione. A un nero come Stallworth (John David Washington), o al suo collega di origini ebraiche Flip Zimmerman (il sempre ottimo Adam Driver), non viene sempre facile misurarsi con le forze di polizia, a maggior ragione se ci sono di mezzo condivisibili ideali di uguaglianza e, nel caso del primo, l’attrazione per la giovane attivista Patrice (Laura Harrier).
Nè mancano i dissapori fra gli estremisti di destra, divisi tra aspiranti politici che cercano di operare sotto una facciata di rispettabilità, come David Duke (Topher Grace), ed elementi più radicali come i coniugi Kendrickson (Jasper Pääkkönen e Ashlie Atkinson). È proprio il personaggio di Connie Kendrickson a innescare un’appuntita riflessione sul ruolo delle donne in seno al KKK: l’organizzazione è piramidale e deliberatamente maschilista, i rituali di iniziazione sono riservati ai soli uomini, mentre le donne accettano la propria dimensione subordinata, persino quando vengono coinvolte nella pianificazione di iniziative chiave.
Di contro, per antitesi, la giovane Patrice ricopre una posizione di aperta leadership all’interno del movimento studentesco per i diritti civili.
Nel mostrare la continuità fra il Ku Klux Klan delle origini e i movimenti razzisti suprematisti attivi durante gli anni Settanta e Ottanta (e arrivati evidentemente fino ai giorni nostri), Spike Lee intavola una riflessione sui media affatto scontata. Insiste sul ruolo ricoperto da cinema e fotografia nella diffusione del “white power” e viene difficile non farlo rimbalzare sulle modalità di utilizzo dei social media da parte dell’Alt-right.
In una sequenza del film, ad esempio, un anziano uomo di colore racconta che i reporter di inizio secolo immortalavano le torture inflitte ai neri e distribuivano le foto alla stregua di cartoline postali. Più o meno contemporaneamente, nella sede del KKK un gruppo di adepti assiste divertito alla proiezione rituale di Nascita di una nazione. Il celebre film di David Wark Griffith è un perfetto punto di partenza per ragionare sui limiti contestuali di un’opera e sulle distorsioni a cui può andare incontro: proiettata per la prima volta nel 1915 col titolo di The Clansman, l’opera di Griffith fu per l’epoca un vero e proprio blockbuster. Ancora oggi le vengono riconosciuti enormi - e legittimi - meriti formali e grammaticali, ma a livello di contenuti è molto più che datata e rispecchia la visone degli storici statunitensi dell’epoca, secondo cui il Ku Klux Klan sarebbe nato come sana reazione al caos della guerra di secessione.
Tanto per fare un esempio, Nascita di una nazione mette in scena il processo sommario e l’esecuzione di un uomo di colore da parte di un gruppo di incappucciati che, sì, insomma, sarebbero i “buoni”.
I media di oggi sono ancora più pervasivi del cinema o della fotografia, più efficaci, ed espongono i contenuti a rischi di manipolazione e decontestualizzazione più alti rispetto al passato (basti pensare alla cultura dei meme).
Tutti i pipponi che ho appena snocciolato appesantiscono questa recensione ma fortunatamente non il film, che fila via liscio senza troppe menate. BlacKkKlansman punge come un'ape ma vola come una farfalla, e funziona davvero bene anche a prescindere dalla componente politica. Attraverso un linguaggio popolare e una regia solida e pulita, che gioca con la grammatica da film anni Settanta, Spike Lee mette insieme un classico racconto di genere à la The Departed pieno di ritmo e suspense, e con un pizzico di blaxploitation.
BlacKkKlansman è distante dalle atmosfere azzimate à la The Post: Stallworth, Zimmerman e i ragazzi della polizia di Colorado Springs sono dei professionisti, OK, ma pure e realisticamente dei gran cazzoni. Certi siparietti telefonici fanno crepare dal ridere, alleggeriscono il film e spogliano gli esaltati del KKK da quell’aura di solennità che tanto bramano. Insomma, per tagliare, secondo me BlacKkKlansman è forse il miglior Spike Lee dai tempi di S.O.S. Summer of Sam, oltre che il film perfetto per cagare il cazzo a questi tempi gobbi.
Ho avuto la possibilità di guardare BlacKkKlansman - in uscita oggi nei cinema italiani - durante l’ultimo Festival del film di Locarno, grazie al cielo in lingua originale. Stasera mi sa che faccio il bis.