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The Blackout Club è un po' come giocare a Thief in Gone Home

Non fatevi ingannare dall’artwork sornione e da quell’atmosfera a là Stranger Things, perché vi ho visti alzare il sopracciglio pronti a borbottare: “Sì vabbè però anche basta co ‘sti regazzini con le torce e le entità soprannaturali”. Sono parzialmente d’accordo con voi ed è anche vero che oramai i teenagerVSmostri sono i nuovi zombi, però The Blackout Club merita un po’ della vostra attenzione, o almeno questo direi dopo qualche ora di prova di una versione assolutamente acerba. Si tratta di un titolo co-op a tinte fosche, sviluppato da Question, software house fondata da ex membri di studi tripla A (tra cui il direttore creativo di BioShock 2, Jordan Thomas e il lead effects artist di BioShock Infinite, Stephen Alexander), a cui nel corso degli anni si sono aggiunti altri veterani dal pedigree importante (Thief, Dishonored… ). Un team, quello dello studio americano, che ammetto di aver scoperto proprio in questi giorni, cosa che mi ha permesso di recuperare il loro gioco d’esordio, The Magic Circle, un’avventura brillante dai contorni molto “meta” nella quale si impersona il protagonista di un gioco di ruolo fantasy mai completato dai suoi sviluppatori. 

A tre anni di distanza, lo studio si presenta dunque con un’opera abbastanza ambiziosa, se non altro per il modo in cui prova a reinterpretare una serie di cliché. Pronti via, la cosa che più mi ha fatto prendere bene è sicuramente lo sbarazzarsi di qualsiasi venatura nostalgica: è vero che si parla di teenager, è vero che ci sono entità inquietanti in grado di trasformare gli adulti in minacce sonnambule, ma estetica e ambientazioni sono del tutto contemporanee. In questo modo, l’aria di famiglia alimentata evidentemente dalle suggestioni di Stranger Things, Ai confini della realtà, I Goonies e compagnia cantante è decisamente più fresca e respirabile.

La missione introduttiva, un misto tra tutorial e walking simulator giocabile in single player, funziona benissimo per comprendere le dinamiche principali del gioco. In pratica, ci troviamo nei panni di un teenager che, solo in casa, si ritrova suo malgrado a scoprire che nel quartiere stanno avvenendo cose strane. Dai cellulari impazziti fino a comunicazioni con i genitori assai inquietanti, ci ritroviamo a vivere a metà strada tra sogno e realtà, mentre squarciamo il classico velo che separa la “normalità” da una sua versione grottesca e terribilmente sinistra. Per farla breve, un’entità chiamata The Shape sta entrando nella testa degli adulti della cittadina e li sta trasformando in sonnambuli. Le minacce possono essere ovunque e rispondono al classico dogma “sono tra noi”, per cui lo scopo del gioco, dopo essere sopravvissuti al primo attacco in solitaria, è trovare un gruppetto di amici per andare a fare ronde di quartiere e smascherare il complotto occulto che si nasconde dietro The Shape e i suoi adepti. 

All’atto pratico, all’interno di The Blackout Club finiscono non solo i riferimenti estetici di una certa letteratura/filmografia, ma soprattutto i canoni ludici dei diversi giochi su cui i membri del team hanno lavorato in precedenza. Pur in un impianto classico da FPS, infatti, alle armi si sostituiscono oggetti più o meno comuni (cellulare in primis, da utilizzare come torcia e per fotografare e registrare la presenza di nemici, ma non mancano rampini e strumenti tecnologici) e, in generale, si capisce bene che l’unico modo per colmare il gap tra ragazzini adolescenti e adulti con poteri dati un’entità superiore è quello di agire senza fare troppo rumore. L’anima stealth è sicuramente quella predominante ed eredita dai giochi presenti nel DNA dello studio una certa raffinatezza nelle meccaniche di ingaggio e di fuga. Ogni tipologia di nemico (al momento due, più The Shape) ha alcuni sensi più sviluppati di altri, e dunque, dopo aver individuato le minacce, bisogna essere bravi a gestire i propri movimenti, facendo attenzione alla rumorosità delle superfici e alla presenza di luci. Per farlo, come in ogni co-op che si rispetti, è necessaria coordinazione, anche e soprattutto perché ogni ragazzino ha i suoi poteri, che vanno da una maggiore forza per mettere temporaneamente KO i nemici (saltandogli addosso da dietro) fino ad avere un drone di ricognizione radiocomandato a propria disposizione.

Nella gestione del gruppo e nella dinamica degli obiettivi ci sono forse gli elementi potenzialmente più intriganti: al di là del piacere dato naturalmente dalla cooperazione, è la struttura delle missioni ad essere particolarmente ambiziosa. Ogni partita rappresenta virtualmente una notte nel quartiere e gli obiettivi possono essere disparati (sono casuali), ma di base prevedono la raccolta di informazioni o il recupero di qualcosa, oltre ovviamente alla fuga dall’entità, che si comporta come una sorta di boogeyman random, che improvvisamente imperversa per la mappa con fare letale. Il vero problema è che l’unico modo per vedere The Shape è chiudere gli occhi, cosa che ovviamente va poco d’accordo con l’esplorazione e le tattiche stealth. Come se non bastasse, più si compiono azioni rischiose (come scassinare una porta, combattere, etc... ), più si alzano le possibilità che si palesi la minacciosa entità. Ad aggiungere un ulteriore strato di infamia c’è la possibilità che un “traditore” entri nella partita e si metta sulle tracce dei giocatori per accelerare l’arrivo di The Shape, per la gioia di tutti. Se malauguratamente la strana figura rossastra si impossessa di uno dei ragazzini, questo entra in uno stato catatonico da cui può essere svegliato (fino a un massimo di tre volte per partita) da uno dei compagni, però diciamo che le chance che vada tutto malissimo aumentano con il passare dei minuti.

Come in tutti i giochi cooperativi, anche in The Blackout Club ogni cosa dipende dal modo in cui si decide di condividere l’esperienza. Nelle mie prove, il divertimento è stato direttamente proporzionale alla voglia che avevano i miei compagni di giocare insieme e per bene, e data la natura del gioco, l’idea del gruppetto di amici è fondamentale per la riuscita dell’esperienza. Il cuore del gameplay, in ogni caso, c’è e funziona, e al netto di qualche aspetto un po’ farraginoso nella gestione di inventario e poteri, la base è assolutamente ottima. L’aspetto più convincente è proprio l’ambientazione, non tanto per la parte occulta, quanto proprio per la piacevolezza di vagare in luoghi domestici e usarli come scenario per un gioco action-stealth. È un po’ come giocare a Thief in Gone Home, e scoprire i dettagli su persone comuni, parenti e amici mentre si sta provando a scappare da un sonnambulo pazzo è tanto inquietante quanto affascinante.

Se nel gioco completo l’aspetto di caratterizzazione del quartiere, la personalizzazione e la progressione del personaggio (al momento rudimentale ma già bella che funzionante) conserveranno un ruolo importante (come dovrebbero) nel modo in cui si vive l’esperienza, The Blackout Club potrebbe davvero essere qualcosa di unico, oltre che un bellissimo modo di intendere il multiplayer co-op. Per il resto, essendo in fase di closed beta, è abbastanza inutile soffermarsi sugli aspetti più tecnici, ma la cifra estetica sembra azzeccata e l’Unreal Engine si comporta al solito bene in questi contesti. Forse il FOV è un po’ troppo largo e in alcune stanze più piccole, come i bagni e gli stanzini, si ha talvolta una strana percezione, un po’ deformata, dei mobili, però sono dettagli abbastanza irrilevanti, in questo momento della produzione. Fa ben più piacere che la sensazione di essere dei nanerottoli di un metro e mezzo che saltano alle spalle di esseri ben più grossi per prenderli a cazzotti dietro la nuca funzioni benissimo. Per scoprire se The Shape riuscirà a terrorizzare per bene i sogni del tranquillo quartierino della periferia americana, dove notoriamente succedono le peggio cose, bisogna aspettare un momento imprecisato dell’anno prossimo. Nel mentre, fate sogni sereni e attenti a vostra zia, perché il pericolo è sempre più vicino di quanto non pensiate.