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Bohemian Rhapsody non lo salvano nemmeno i gatti e il (bellissimo) cosplay finale

Trovo piuttosto seccante quando un film (o un libro, o un videogioco) complessivamente riuscito viene messo in discussione in via di un finale non all’altezza, come se questo andasse a inquinare tutto quanto di buono lo ha preceduto. Oh, può succedere, e non voglio nemmeno fare discorsi da salumiere e affettare un’opera valutandone una per una le singole parti. Però, ecco, trovo la cosa dei finali un po’ ingiusta, gratuita. Anche perché non è mica facile chiudere le cose per bene, soprattutto quando funzionano.

Detto questo, ieri l’altro, uscendo dall’anteprima di Bohemian Rhapsody, mi sono trovato a infilare il discorso dalla direzione opposta: può un finale interessante riscattare un intero film? Non ne ho idea, ma sicuramente non è il caso di questo biopic.

In uscita oggi nei cinema italiani, Bohemian Rhapsody attraversa quindici anni di attività dei Queen, dalla nascita all’inizio degli anni Settanta fino al celeberrimo concerto Live Aid del 1985. Alla voce “regia” si legge il nome di Bryan Singer, nonostante la chiusura delle riprese e la postproduzione siano state affidate a Dexter Fletcher, dopo il turbolento licenziamento del primo.

Capace che la scelta di lasciare lì la firma di Singer sia dipesa da questioni di marketing o di prestigio, vai a sapere. Resta che il film ha risentito parecchio della lavorazione tribolata e, per quanto la messa in scena lasci emergere la mano del regista de I soliti sospetti e quella del suo direttore della fotografia storico, Newton Thomas Sigel, siamo davanti a un’opera piuttosto amorfa.

Piatto, scritto male e afflitto da scelte dialogiche decisamente infelici, Bohemian Rhapsody è strutturato come un classico racconto in tre atti di ascesa, crisi e rinascita. L’intento non è fuori luogo, soprattutto a fronte di un materiale di partenza – la storia di Freddie Mercury e dei Queen – dal potenziale immenso. Potenziale che tuttavia finisce completamente sprecato assieme alle musiche, a causa di una narrazione didascalica, che procede col pilota automatico nel migliore dei casi e sfiora la parodia nel peggiore.

La scrittura dei personaggi è scarica come le molle che li spingono ad agire: i membri della band bisticciano e si riappacificano senza nessuna tensione o conseguenza. Ogni tanto si parla di musica ma, a parte un paio di sequenze, il discorso si riduce a un “suonamela più rock” e “mettici più cuore”. E per carità, non che da un film popolare e votato sostanzialmente ad altro pretenda chissà quali disquisizioni, ma un minimo di finezza in più non avrebbe guastato, ecco.

Le cose procedono a regime minimo anche quando si tratta di sentimenti, ogni cosa si risolve frettolosamente e senza sfaccettature. E se tutto sommato la costruzione del rapporto tra Mercury e la sua compagna storica, Mary Austin, ci può pure stare, di contro, l’assistente personale e amante del cantante, Paul Prenter, nel suo apparire così smaccatamente malvagio, sembra la versione caricaturale di Yoko Ono.

OK, c'è un po' di effetto cosplay, ma quanto ci sta bene, Malek, nei panni di Freddie?

Non mi sentirei di affibbiare la colpa di tutta questa sciatteria al cast - che di per sé non è male - ma piuttosto alla scarsa convinzione con cui è stata condotta la baracca. Rami Malek (Mr. Robot), quando canta o non parla, è un ottimo Mercury, ma anche gli altri Queen hanno la faccia giusta: Ben Hardy e Joseph Mazzello nei panni di Roger Taylor e John Deacon funzionano e il Brian May di Gwilym Lee è addirittura notevole. 

Attorno alla band, oltre ai succitati Mary (Lucy Boynton) e Paul (Allen Leeche), orbitano il manager John Reid (interpretato da Aidan “Ditocorto” Gillen) e l’avvocato Jim Beach (Tom Hollander, forse il migliore in scena). Il film ospita anche un lungo cameo di Mike Myers nei panni del discografico fittizio Ray Foster, che chiaramente bolla Boheman Rhapsody come "un polpettone  troppo lungo che nessun ragazzino vorrebbe cantare in auto”.

Eppure, nonostante il cast, Bohemian Rhapsody nuota sempre dove si tocca. Essì che si prende il suo tempo: due ore e rotti, nel corso delle quali l’omosessualità di Mercury, il rapporto con la malattia, lo stile di vita dissoluto e persino la storia d’amore tra il musicista e Jim Hutton (Aaron McCusker) passano davanti agli occhi dello spettatore senza lasciare alcuna traccia.

L’apparente desiderio di non scalfire i membri dei Queen ancora in circolazione e, soprattutto, di non gettare troppe ombre sulla memoria del frontman finisce per negargli un qualsiasi approfondimento. Il Mercury di Singer/ Fletcher/Vai a sapere appare come una vittima; un uomo ossessionato dalla solitudine e bisognoso di affetto. Commette degli errori, OK, ma solo perché viene manipolato dal cattivo di turno, e alla fine si redime conciliandosi con la sua arte e le sue due famiglie. Da un lato, quella di sangue composta dai genitori di fede zoroastriana Jer e Bomi Bulsara (Meneka Das e Ace Bhatti) e dalla sorella Kashmira (Priya Blackburn). Dall’altro, i Queen, che ne escono come un gruppo di fratelloni alla buona, pronti a perdonare le sbandate di Freddie senza badare troppo alla fama, alla pressione e ai milioni di dollari.

L’amicizia che trionfa sul male.

Davanti a questa rappresentazione agiografica della band, viene difficile non dare consistenza alle parole di Sacha Baron Cohen, opzionato come interprete del cantante durante le prime fasi del progetto. Nel corso di un’intervista radiofonica, l’attore ha dichiarato che “I problemi con la produzione sono sorti perché desideravo entrare nei dettagli della vita di Mercury, compresa quella sessuale. Girano storie sconvolgenti, su Freddie; era una persona selvaggia e aveva una condotta estrema”. Di questo stile di vita, nel film, entrano giusto i fronzoli, e i pochi angoli rimasti vengono smussati da alcune licenze narrative che spingono l’acceleratore sul volemose bene.

Oddio, anche la scelta di raccontare la band sul lungo periodo non premia, ma va detto che tendo sempre a preferire i biopic asciutti e d’atmosfera à la Last Days, piuttosto che certi baracconi come The Doors.

Comunque, peccato davvero, perché il film aveva in mano delle belle carte. Per riscattarlo, non sono sufficienti tutti i bellissimi felini in scena (Mercury era una nota gattara), né - soprattutto - l’ottima sequenza finale del Live Aid. Per quanto sia sostanzialmente un cosplay-show di venti minuti, questa riesce ad andare oltre il puro esercizio di stile, facendo volare lo spettatore sopra l’immensa folla e trascinandolo sul palco di uno fra i concerti più iconici della storia.

L’intera galoppata finale è una rimediazione che ricorda per intenti la sequenza di Shining nel Ready Player One di Spielberg, e spiace proprio che una roba così figa arrivi dopo due ore di mediocrità.

Ho avuto la possibilità di guardare Bohemian Rhapsody in anteprima e doppiato in italiano, grazie a una proiezione stampa alla quale siamo stati gentilmente invitati. Non mi è dato sapere se certe scelte di pronuncia un po’ troppo spinte siano in linea con la recitazione originale, ma francamente ne dubito.

I venti minuti finali sono ottimi, recuperateli su YouTube.