Outcast

View Original

Brandon Lee è il mio Corvo

Anche se sono passati ormai trent’anni, l’impatto che ebbe Il Corvo su di me, e in generale, su quelli della mia generazione, me lo ricordo molto bene. Verso la fine del mese di agosto, cominciarono a circolare i primi trailer in televisione (c’era proprio una sorta di piccolo spazio televisivo in cui venivano presentati tutti in fila tre o quattro trailer dei prossimi film in uscita, credo si chiamasse Ciak News o qualcosa di simile). Diverse riviste di quel periodo, dalla sempreverde TV, Sorrisi e Canzoni, passando per quelle più settoriali come Tutto e Ciak, pubblicarono diversi speciali sul film. La pellicola aveva già fatto parlare molto di sé in madre patria, soprattutto per il fatto che fosse l’ultimo film interpretato da Brandon Lee, morto tragicamente verso la fine delle riprese.

All’epoca, di Brandon Lee conoscevo poco o nulla. Sapevo che fosse il figlio del leggendario Bruce e mi ricordavo vagamente di lui per Resa dei conti a Little Tokyo, ma nient’altro. Non aveva ancora la carriera o l’iconicità degli attori identificabili nella cultura di massa dell’epoca, come un Sylvester Stallone o un Arnold Schwarzenegger, tanto per fare qualche esempio noto a tutti. Quello che fece salire in me la proverbiale “scimmia” nei confronti del film, furono la trama e i toni cupi e dark della pellicola.

Your browser doesn't support HTML5 audio

Il corvo compie trent'anni Outcast Staff

Eric Draven, musicista rock dal cuore d’oro, viene ucciso da una banda di balordi mentre tenta di salvare la sua ragazza, Shelly Webster, stuprata e ridotta in fin di vita dagli stessi. A un anno esatto dalla morte, Eric ritorna misteriosamente in vita, dotato di forza e invulnerabilità, per fare giustizia. Insomma, per me, che ho sempre avuto un debole per le storie di vendetta e d’azione, dove i cattivi muoiono male, era potenzialmente il film perfetto.

Ma bollare Il Corvo come un semplice revenge movie in salsa horror (dove di elementi orrorifici non ce n’erano, a parte forse il trucco da Pierrot di Eric Draven, un filo inquietante) sarebbe riduttivo. Il film diretto da Alex Proyas è un adrenalinico e allo stesso tempo malinconico dramma gotico, intriso di romanticismo dark. Una Detroit corrotta, marcia e decadente, spesso coperta da una coltre di pioggia che sembra non finire mai, controllata dal boss criminale Top Dollar e dalla sua banda criminale, vede alcuni dei suoi abitanti cercare di portare avanti una vita completamente alla deriva. Sarah, ancora in quell’età di mezzo fra infanzia e adolescenza, cresce senza l’affetto della madre Darla, cameriera dipendente dall’eroina. Trova quell’affetto in Shelley ed Eric, per lei una sorta di famiglia alternativa, almeno fino a quando non vengono uccisi senza pietà. Albrecht, poliziotto rimasto solo dopo il divorzio dalla moglie, continua ad essere un onesto e integerrimo tutore della legge nonostante l’ostracismo del suo superiore. Il loro senso di malinconia e sofferenza si percepisce in ogni parola e in ogni espressione, nonostante siano entrambi abbastanza forti da nasconderlo. Il loro cammino si era incrociato proprio in occasione dell’omicidio di Eric e Shelley, e si riuniranno al musicista in occasione del suo ritorno dall’oltretomba. Già, perché anche Eric, nonostante sia adesso una sorta di entità indefinita in bilico tra il mondo dei vivi e quello dei morti, porta ancora addosso i segni del trauma subito. Quando fa ritorno per la prima volta al suo vecchio appartamento, ormai abbandonato, rivive i flashback del suo omicidio come se stesse accadendo proprio in quel momento. Durante il corso della sua vendetta, fra un assassinio e l’altro, è costretto a prendere contatto con quell’umanità che ancora alberga in lui, e così lo vediamo suonare qualche accordo di chitarra sul tetto di un palazzo – per poi sfasciarla – e vedere le foto di lui e Shelley felici insieme, prima di bruciarle definitivamente. Perché ormai sono ricordi di un tempo passato che non c’è più e che non tornerà. Lo stesso Top Dollar, cinico e spietato, mostra, seppur brevemente, di avere anche lui una dimensione umana. Lo vediamo proprio in occasione dell’introduzione del suo personaggio, che versa una lacrima tenendo tra le mani un piccolo globo di neve di un cimitero, regalatogli dal padre in occasione dei suoi cinque anni. Perché “l’infanzia finisce quando scopri che un giorno morirai”.

Ma, al di là di tutta la dimensione umana e sentimentale – perché viene ribadito sia all’inizio che alla fine del film che niente può separare due anime gemelle, nemmeno la morte, e il vero amore è per sempre – ne Il Corvo convive anche l’anima del film d’azione, che, almeno all’epoca, era prevaricante sul resto. Eric, vestito di pelle nera e truccato da clown triste, uccide i suoi carnefici (e non solo) nei modi più disparati: pianta nel corpo di Tin Tin i suoi stessi coltelli “colpendo i principali organi vitali in ordine alfabetico”, inietta nelle vene di Funboy tanta eroina da mandarlo in overdose, immobilizza T-Bird nella sua macchina, facendogli fare un viaggio di non ritorno verso il molo, condito da tanto di esplosivo, e lancia Skunk fuori dalla finestra esattamente come avevano fatto con lui.

Oltre a ciò, ci sono altre due sequenze memorabili: la sparatoria nel covo di Top Dollar (di cui avevo già parlato in un pezzo dedicato alle migliori sparatorie viste al cinema), in cui Eric fa piazza pulita di tutta la banda del boss criminale, con un sottofondo di musica industrial, e il combattimento finale fra lui e il villain interpretato da Michael Wincott sul tetto di una chiesa, con Eric allo stremo dopo aver perso i poteri, che riesce a farcela solo trasferendo nella mente di Top Dollar le sofferenze patite sua Shelley.

Quando vidi per la prima volta il film, a inizio ottobre del 1994, al cinema, ricordo un sacco di coppiette tenersi per mano in sala, come se stessero vedendo un qualunque film romantico, e tardo adolescenti con barba, capelli lunghi o tinti con colori più disparati e pieni di piercing, che avevano quell’aria gotico-dark che andava di moda in quegli anni, probabilmente attratti dall’anima decadente di quel film.

Ricordo che uscii dalla sala quasi sbalordito da quello che avevo visto – in fondo ero poco meno di un adolescente – e pensai di aver assistito una delle più belle storie d’amore che il cinema potesse raccontare. Un uomo che torna in vita, sofferente e arrabbiato, e fa a pezzi chi ha distrutto l’amore della sua vita, sapendo che la vendetta non placherà comunque il suo dolore. Cosa chiedere di più?

Dopo quella prima volta, vidi Il Corvo così tante volte che anche solo ipotizzare un numero sarebbe quantomeno impossibile. Acquistai la VHS non appena disponibile, consumandola quasi letteralmente, apprezzando ogni volta qualche dettaglio in più, come la colonna sonora (Burn dei Cure rimane il top assoluto, in mezzo a tanti bei pezzi dei Nine Inch Nails e Stone Temple Pilots) o quei piccoli riferimenti letterari che cogli solo dopo più visioni e con il passare degli anni, come quelli relativi a il Paradiso Perduto di Milton e una pronunciata dallo stesso Eric tratta da Il Corvo e altre poesie di Edgar Allan Poe: “All’improvviso sentii un rumore, come se qualcuno stesse bussando gentilmente alla porta del mio negozio”.

Mi appassionai anche al mistero della morte di Brandon Lee, morto tragicamente durante le ultime riprese a causa di un’arma non controllata con adeguata attenzione da parte dello staff. Tragedia che, con il tempo, assunse contorni fra l’incredibile e l’inquietante: numerose teorie includevano nell’incidente il coinvolgimento di organizzazioni criminali come la Triade e la Yakuza (per il rifiuto di Lee di partecipare a film di produzione asiatica) o una sorta di oscura maledizione che aleggiava sulla famiglia Lee, visto che anche il più celebre padre Bruce era morto (in circostanze mai del tutto chiarite) senza poter completare il suo film L’ultimo combattimento di Chen.

Brandon Lee mentre gioca con un Game Boy durante una pausa dalle riprese. Era uno di noi.

L’impatto che ebbe la figura di Eric Draven nella cultura di massa fu incredibile: oltre ad entrare nell’immaginario collettivo come uno dei personaggi di culto della filmografia anni novanta, ebbe una forte influenza in altri personaggi di film e serie TV, quantomeno nel look: il soprabito di pelle nera è diventato elemento caratterizzante dei personaggi di Neo in Matrix, di Spike in Buffy e di Selene in Underworld, anche se l’esempio più calzante rimane il Joker di Heat Ledger, tant’è che la sequenza de Il Cavaliere Oscuro in cui il Joker si presenta alla criminalità organizzata è molto simile a quella in cui Eric Draven fa irruzione nel covo di Top Dollar prima di eliminare tutti i criminali.

Nonostante la morte di Brandon Lee, si è deciso di andare avanti con la saga e, sarà forse anche a causa dell’aura maledetta che aleggia sul film originale, ma ogni tentativo di portare avanti la serie si è rivelato un fiasco: Il Corvo 2 – La Città degli Angeli (1996), pur non essendo così orribile come mi apparve all’epoca, fu un fiasco completo, tant’è che Il Corvo 3 – Salvation (2000) mi pare di ricordare uscì solo in home video, così come il punto più basso di tutta la saga: Il Corvo – Preghiera Maledetta (2005), che vedeva come protagonista un irriconoscibile Edward Furlong, già alle prese con i problemi di dipendenza da alcool e droghe, e David Boreanaz di Angel nella parte del villain, il capo di una malvagia setta religiosa. Nel mezzo di tutte queste perle di rara monnezza, ricordo, purtroppo con dispiacere, una serie TV di 21 episodi (Il Corvo Stairway to Heaven, dove tornava in scena il personaggio di Eric Draven, questa volta interpretato da Marc Dacascos), qui in Italia passata sulle reti Rai a notte fonda, e un pessimo videogioco basato sul secondo film, pubblicato per Saturn e PlayStation.

Sì, ho voluto farmi del male e ho visto e giocato tutto, lo ammetto.

Negli anni si è tentato, continuamente ed ostinatamente, di voler riportare in vita Il Corvo con vari progetti presto abortiti, di cui l’ultimo vedeva Jason Momoa come protagonista, ma fra qualche mese sbarcherà nelle sale il tanto discusso nuovo capitolo con Bill Skarsgaard nel ruolo di Eric Draven. Un film fortemente orientato verso le nuove generazioni, a partire dal look del protagonista fino alla fotografia patinata. Insomma, una roba non troppo dissimile da cose come Twilight e compagnia bella. Un film che in molti hanno già bocciato dal primo trailer, probabilmente ancora legati alla figura dell’Eric Draven di Brandon Lee, diffondendo poi sui vari social l’ashtag #notmycrow.

Ora, pur comprendendo le logiche commerciali del progetto – d’altronde non è né il primo né l’ultimo reboot o seguito di vecchi film di culto ad essere prodotto, perché l’industria del cinema ruota sempre intorno ai soldi, come qualunque altro settore – difficilmente un nuovo Eric Draven potrà fare breccia nel cuore delle nuove generazioni, che hanno gusti e interessi molto differenti da quelle degli anni Ottanta e Novanta. Il Corvo, quello originale, era una storia che si sposava perfettamente con gli stili e i gusti dell’epoca, in cui era presente una sorta di movimento dark-gotico-nichilista in cui si ascoltavano i Nirvana e gli Smiths e si credeva, forse un po' ingenuamente, nel vero amore e nell’eroe buono che sconfigge il male.

Per me Il Corvo è sempre stato uno di quei film che fanno parte di una sorta di ideale “coperta di Linus”, qualcosa da vedere quando non avevo nulla da fare o mi stavo annoiando, o magari da tenere in sottofondo mentre facevo altro. E, soprattutto, rimane uno di quei film manifesto di un periodo che non c’è più, fatto di VHS, riviste di cinema, musicassette, locandine appese sui muri della camera e soprabiti di pelle indossati come gesto di emulazione.

E, anche se dopo Bill Skarsgaard dovessero esserci altri Eric Draven, per me – e per molti altri – Brandon Lee sarà il mio unico e vero Corvo.