Charles Cecil, l’uomo dei punta e clicca
Charles Cecil ha percorso, con i suoi giochi d’avventura, quasi l’intera storia del videogioco, sicuramente tutta quella del videogioco moderno. Ha iniziato nei primissimi anni Ottanta, ha partecipato all’esplosione delle avventure grafiche, vi ha contribuito in maniera significativa e innovativa durante la loro epoca d’oro, ha vissuto gli anni turbolenti, per il genere, durante l’esplosione di PlayStation e della grafica poligonale, ha partecipato con gioia al rilancio reso possibile dalla scena indipendente. Durante il Reboot Develop Blue 2019, ho avuto modo di chiacchierare con lui dei bei tempi andati e di cosa sta combinando adesso, sfiorando brevemente anche il tema Beyond a Steel Sky. In questo articolo su IGN Italia, ho raccontato l’intervista in forma discorsiva, nell’Outcast Reportage dedicato alle interviste del Reboot Develop Blue 2019 potete ascoltare la conversazione in inglese e di seguito potete leggerne la trascrizione integrale in italiano.
Buona lettura!
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Partiamo dalle basi: come hai iniziato, cosa ti ha fatto scoprire la tua passione per i videogiochi e il tuo desiderio di lavorare in quel settore?
Sono stato fortunatissimo! Da studente, non avevo idea di cosa fare del mio futuro… ma mio padre era un ingegnere e io adoravo l’ingegneria vittoriana, i treni a vapore, la loro forma e funzionalità, l’idea di trovare soluzioni creative per problemi che richiedevano conoscenze estetiche e tecnologiche. Andai a lavorare in Ford, all’interno di un programma chiamato “Special Engineering Program”, fra l’altro in un momento in cui l’industria locale era in condizioni terribili e il governo stava investendo per formare dei “super ingegneri”. Ebbi la fortuna di essere uno di loro e ricevetti un livello d’istruzione eccellente in legge, contabilità, media, una grande varietà di materie. In quel periodo, conobbi un ingegnere di nome Richard Turner, che aveva appena avviato uno studio di sviluppo di videogiochi, nel 1980. Forse il primo in Europa! Aveva fatto ingegneria inversa sulla ROM dello Spectrum ZX80, in modo da sapere come scrivere codice molto efficiente.
Tra l’altro, avevamo fatto amicizia perché giocavamo assieme a Space Invaders. Un giorno gli proposi di andare a correre assieme, qualche giorno dopo glie lo proposi di nuovo e lui si presentò in auto… Disse: “Vado a correre in auto”, un modo molto inglese di dire che non aveva voglia di correre. Andammo in auto al pub, giocammo a Space Invaders e divenne proprio un’abitudine: giravamo in auto alla ricerca di Space Invaders, Galaxians… qualsiasi videogioco. Un giorno mi invitò a casa sua, in una città sulla costa inglese, e mi mostrò qualche gioco per TRS-80, il computer di Tandy, importato dall’America. Mi propose di scrivere giochi assieme, scrivere storie, e scrissi i miei primi giochi per Sinclair ZX81, nel 1981. Stiamo parlando di un computer con 1 K di memoria, ma c’era l’espansione da 16 K. Quanto è bello parlare di queste cose, tirar fuori l’iPhone e pensare che ha duecentocinquantasei milioni di volte la memoria che avevamo a disposizione all’epoca? Eppure, oh, riuscimmo a far stare un gioco di scacchi in 1 K. Pazzesco. Un lavoro pazzesco. Non fatto da me, eh! Noi ci limitammo a pubblicarlo, era di un programmatore chiamato David Haud. Facevamo cose incredibili e la cosa interessante era che in Francia, Belgio e mi sembra in Italia andava molto Sinclair, mentre in Germania, Olanda e in Scandinavia dominava Commodore. C’era una grossa divisione. Ma fu fantastico, ci inventammo il lavoro mano a mano. Fra i primi giochi che sviluppammo su ZX81 ci fu Galaxians. Ricordo che Richard mi chiese: “Come lo chiamiamo? Possiamo chiamarlo Galaxians?”… non avevamo idea. Alla fine lo intitolammo ZX Galaxians e lo vendemmo nella catena WH Smiths, dando per scontato che non ci fosse nessun problema, dato che nessuno ci aveva detto niente. Nessuno ci fece causa.
Per due o tre anni, le cose andarono alla grande. Il medium si stava sviluppando in maniera molto rapida, ci furono alcune innovazioni incredibili… ricordo Ant Attack, su Spectrum, era anni luce avanti a tutto il resto. Poi Impossible Mission su Commodore 64… vedevi proprio queste pietre miliari. La nostra azienda, Arctic, andava bene sul piano commerciale, ma per qualche motivo non riuscivamo ad attirare gli sviluppatori più bravi, quelli che stavano davvero innovando, e finimmo per pagare questa cosa. Ma per qualche anno fu fantastico. Tra l’altro, nel frattempo, io frequentavo l’università a Manchester. All’epoca, il mio migliore amico viveva a Leeds, quindi, ogni settimana, prendevo l’auto, andavo dal mio amico, ci facevamo due birre, poi andavo in azienda, lavoravo sui giochi… per un anno o poco più, ottenemmo parecchio successo, ed era davvero facile scrivere quei giochi, ci mettevo un weekend o poco più, durante le feste. Ricordo una cosa accaduta con WH Smiths, che all’epoca era l’unica catena che vendeva videogiochi. Il loro buyer principale era un tizio di nome John o Paul, e ricordo che dovevo cercare una cabina telefonica… ai tempi, parrà incredibile, per chiamare una persona, andavi a una cabina e inserivi dei soldi! Ci tenevo che John Rowlands pensasse a noi come dei seri uomini d’affari… ma ovviamente lui sapeva fin troppo bene chi eravamo! Lo chiamai da una cabina: “Ciao John, sono Charles Cecil di Arctic Computing, abbiamo una nuova avventura.” Lui mi rispondeva: “Come l’ultima? Mandamene cinquemila copie.” Glie le facevamo pagare penso tre sterline l’una. Gli davo l’OK, poi chiamavo l’azienda che si occupava di duplicare le cassette, ordinavo le cinquemila copie, chiamavo un’altra azienda per ordinare cinquemila etichette… e fine! Il gioco era pronto per la distribuzione! Nelle riviste finiva la pubblicità con le istruzioni per ordinare il gioco per posta… Era semplicissimo e divertentissimo.
Ricordo la prima volta che mi chiesero un autografo su uno dei miei giochi, mi sentii come una rockstar, fu bellissimo. Un uomo, con suo figlio, mi si avvicinò, mi chiese l’autografo e mi disse “Sono riuscito a convincere mia moglie che aveva senso comprare uno ZX81 perché sarebbe stato educativo per nostro figlio.” La scusa era sempre quella, i compiti dei bambini.
Certo, anche per me!
“Aveva funzionato”, proseguì. “Fino a che ci ha visti giocare a uno dei tuoi giochi: il tuo spelling è tremendo. Siamo felicissimi di vederlo leggere ma chisel non si scrive con la zeta, in can’t ci vuole l’apostrofo. Devi farti rileggere i testi!” Non aveva tutti i torti. Avere l’opportunità di parlare coi fan, però, era molto bello e per molti anni ne ho sentito davvero la mancanza. Arctic non andò in bancarotta ma non poteva andare avanti e dovemmo chiuderla. Fondai allora un’azienda chiamata Paragon, che si occupava di conversioni per conto di U.S. Gold, e poi Revolution, nel 1990. A quel punto, i videogiochi venivano venduti ai negozi dai publisher, quindi non avevamo idea di chi fosse il nostro pubblico, non avevamo occasioni per incontrarlo. Ed è per questo che è stato bellissimo autopubblicare Beneath a Steel Sky e Broken Sword su iPhone nel 2009 e 2010, perché per la prima volta abbiamo potuto costruire un rapporto con la comunità, una cosa che prendo molto sul serio.
E per certi versi la scena indie attuale mi sembra simile a come funzionavano le cose ai tempi…
Sotto molti punti di vista, lo è. C’è però una grossa differenza: ora ci piacciamo a vicenda! Siamo contenti di vedere gli altri ottenere successo, perché non ci vediamo come concorrenti. Negli anni Ottanta era il contrario, perché… vedila così: il Regno Unito era un mercato molto ristretto, che poteva accogliere un numero limitato di giochi. Se qualcuno pubblicava un gran gioco, qualcun altro non aveva modo di farlo. Ora il mercato è sostanzialmente infinito, quindi, se uno sviluppatore britannico ha successo, non ci sono conseguenze negative per gli altri. Ma soprattutto, nella scena delle avventure, se un gioco di successo introduce nuovi giocatori al genere, è più probabile che finiscano per provare anche il nostro. Insomma, non vediamo alcun conflitto d’interessi, nel trattarci bene l’uno con l’altro. E comunque, in generale, gli sviluppatori di videogiochi sono tutti bravissime persone. Lo si vede anche in situazioni come questa, al Reboot, dove tutti condividono idee, giocano a calcio assieme… siamo tutti felici del successo altrui.
Inoltre, la scena indie ha più o meno riportato sulla cresta dell’onda il genere delle avventure punta e clicca, dopo un periodo buio. Facendo ricerche, ho trovato queste tue vecchie dichiarazioni, ai tempi del terzo Broken Sword, in cui sentenziavi la morte del genere e sottolineavi la necessità di fare cose diverse.
Già. Allora... avrei dovuto dire che erano in punto di morte. Il problema nacque dal successo incredibile di PlayStation. I publisher si convinsero che i giocatori PlayStation volevano solo giochi viscerali in 3D. Abbandonarono quasi completamente il mercato PC e non volevano più investire nelle avventure punta e clicca. Per questo, con Broken Sword: The Sleeping Dragon, dovemmo spostarci sulla grafica 3D.
Ed è assurdo, considerando il successo che avevate ottenuto con Broken Sword su PlayStation!
Esattamente! L’avevamo pubblicato con Virgin Interactive, che aveva fatto un gran lavoro, e inizialmente non volevano pubblicarlo su PlayStation, perché erano convinti che non avrebbe funzionato. Allora ci rivolgemmo direttamente a Sony, e anche loro non erano proprio gasatissimi all’idea, ma alla fine accettarono di pubblicarlo. A quei tempi, la rivista ufficiale PlayStation, nel Regno Unito, vendeva seicentomila copie al mese e le cifre erano probabilmente le stesse in Germania e in Francia. Si parla quindi di un milione e mezzo di lettori. E Broken Sword prese 9 in tutte e tre le riviste, con articoli enormi e copertine. Avvenne in una certa misura perché stavamo lavorando con Sony, ma anche perché il gioco piacque davvero ai recensori. La cosa buffa è che poi, pur senza essere obbligati a farlo, andammo a chiedere a Virgin se volevano pubblicare Broken Sword II su PlayStation e ci diedero la stessa risposta: non venderà. Eppure vendettero benissimo entrambi. E quando, anni dopo, la rivista ufficiale britannica chiese ai lettori quali fossero i loro giochi preferiti sulla prima PlayStation, Broken Sword II si piazzò al sesto posto, sopra a Resident Evil! Una cosa completamente folle. Ma nonostante questi risultati, i publisher continuavano a non voler produrre avventure punta e clicca. Ricordo un’occasione in cui il capo di Virgin, in America, mi mostrò un gioco intitolato Creature Shock e mi disse “Smettila con le avventure, sono questi i giochi che venderanno.” Poi mi disse che era molto orgoglioso di non aver mai giocato a un videogioco e che per quello prendeva decisioni eccellenti su quali prodotti acquisire.
Io giocai al primo Broken Sword su PlayStation…
Mi dispiace tantissimo per il sistema di controllo!
… e i caricamenti… giocai al secondo su PC.
Ti capisco.
Tornando un attimo indietro, quando uscì Lure of the Temptress, l’idea del Virtual Theater era davvero affascinante e a ripensarci oggi, era quasi una versione molto in piccolo del concetto di open world oggi onnipresente, con i personaggi che andavano in giro a vivere le loro vite…
Beh, con Beyond a Steel Sky riporteremo in vita l’idea del Virtual Theater.
Ci rimasi davvero male quando vi vidi abbandonare quel concetto nei giochi successivi…
Anche io! Non so perché… diventammo prudenti, più ancorati ai canoni del punta e clicca. In Beneath a Steel Sky c’era ancora un po’, con i personaggi che andavano in giro… ma il Virtual Theater è il cuore di Beyond a Steel Sky. Attenzione: è un’avventura, in tutto e per tutto, ma usa l’idea di un mondo molto dinamico, con personaggi che hanno le loro motivazioni, i loro obiettivi, e si muovono per il mondo, compiendo azioni. Inoltre, nella demo che abbiamo al momento è già presente il nuovo sistema di hacking, che si basa sul sovvertire la logica dei sistemi, cosa che va a influenzare gli obiettivi dei personaggi. Questo dà vita a situazioni interessanti, con opportunità per enigmi molto dinamici. Storicamente, quando si parla di enigmi con soluzioni multiple, la cosa è comunque limitata dal fatto che quelle soluzioni le devi scrivere. Ma oggi possiamo creare un gioco in cui il giocatore deve comprendere le regole del mondo e a quel punto può ragionare su come sovvertire i personaggi, i sistemi. Sono quasi trent’anni che sogno di far rinascere il Virtual Theater… era una bella idea, no?
Certo! Chiaramente, a riguardarlo oggi risulta primitivo ma l’idea di poter seguire un tizio, spiarlo e magari, così facendo, risolvere un enigma, era fantastica. Ed era completamente diverso da quello che si poteva trovare in qualsiasi altro punta e clicca. Fra l’altro, visto che hai introdotto l’argomento, erano anni che parlavi del desiderio di dare un seguito a Beneath a Steel Sky, l’anno scorso avevi accennato al fatto di stare lavorando a qualcosa di segreto…
Non sono molto bravo a bluffare.
… ma quando è realmente nato, questo nuovo progetto? È esattamente il progetto che hai avuto in mente per tutti quegli anni o è qualcosa di completamente nuovo?
Ho sempre desiderato sviluppare questo seguito e non avevo la minima intenzione di farlo senza Dave Gibbons, che era stato troppo importante per il primo episodio. Siamo ottimi amici, giusto ieri ho passato la giornata con lui, ed è una persona dal talento enorme, lavorare con lui è un vero piacere. Credo che la cosa sia nata davvero un po’ di anni fa: ci siamo incontrati, abbiamo iniziato a tirar fuori un po’ di idee per un gioco e non ne stava nascendo nulla, fino a che non ci dicemmo che dovevamo fare un seguito di Beneath a Steel Sky. Iniziammo a lavorarci e continuammo per qualche tempo, ma volevo evitare di annunciarlo per non ritrovarci improvvisamente sotto pressione. La cosa fantastica dell’essere uno sviluppatore indipendente è che abbiamo fatto un profitto con Broken Sword V e questo ci ha permesso di iniziare a lavorare su dei prototipi, ma senza doverci impegnare con un publisher a completare il gioco per una data precisa. Che è quello che dovevamo fare un tempo. Oggi, invece, possiamo continuare a lavorare sui prototipi fino a trovare quello giusto e se non lo troviamo, possiamo abbandonare il progetto. Anche perché, proprio perché siamo uno sviluppatore indipendente, se un progetto fallisce, finiamo in bancarotta. È davvero così semplice. Oltretutto, abbiamo preso dei prestiti personali, quindi non è solo una questione di bancarotta, finiamo anche per ritrovarci con dei grossi debiti. Il lato positivo è che questo ci rende molto prudenti, ma allo stesso tempo, se qualcosa non sta funzionando, non ci dormo la notte, perché il fallimento di un progetto rischia di essere catastrofico. E per certi versi, l’idea tranquillizzante di lavorare per un grosso publisher, essere pagati regolarmente, mi farebbe paura, perché farebbe svanire quella determinazione nel tentare di fare il miglior lavoro possibile.
Allo stesso tempo, sono quasi quarant’anni che scrivo videogiochi e ho assemblato un gruppo di persone fantastiche, che si fidano delle mie decisioni. Tradire quella fiducia sarebbe terribile, sotto tanti punti di vista. Per questo non voglio parlare di un progetto fino a che non sono sicuro che sia il momento giusto, per non rischiare di creare aspettative auspicabilmente alte tramite idee che, però, ancora non so se potranno andare in porto, col rischio di diluire e alienare la tua comunità.
Come mai, secondo te, le avventure e gli enigmi si prestano così bene per raccontare una storia?
Perché è l’unico genere in cui gli enigmi e la narrazione sono completamente interconnessi. Quando sto creando un enigma, non lo concepisco mai come un semplice ostacolo per il giocatore. Deve sempre essere legato alla progressione della storia, per fare in modo che risolvere l’enigma porti avanti il racconto. Non c’è nessun altro genere che faccia questa cosa, anzi, tutti gli altri generi usano la narrazione per dare motivazioni al giocatore e per premiarlo per le sue azioni. Quindi è un genere molto puro. Ovviamente non è un genere mainstream, è più una grande nicchia, se vogliamo, ma la gente ne è molto appassionata. E la differenza fra le avventure che si limitano a usare gli enigmi come ostacoli e quelle che li sfruttano come veicolo per portare avanti il racconto è fortissima. Per questo cerco sempre di seguire la seconda via.
Inoltre, una cosa di cui sono sempre stato molto invidioso, pensando a giochi come The Secret of Monkey Island, è il fatto che, se hai degli enigmi che si appoggiano sulla comicità slapstick, possono saltare fuori dal nulla. Per esempio, quello famoso basato sul gioco di parole fra monkey (scimmia) e monkey wrench (chiave inglese), che è fantastico. Ma richiede molto meno lavoro, rispetto a ragionare esattamente sulle motivazioni dei personaggi, su come legare l’enigma ad esse, su come intrecciarlo alla storia.
Di contro, quell’enigma di Monkey Island era difficile da localizzare!
[ride] Non solo! All’epoca, inglese e americano erano molto più diversi fra loro e noi non usavamo il termine monkey wrench. Quindi fu un problema anche per noi.
Cosa ne pensi dell’evoluzione del genere, di tutti quei giochi narrativi che non hanno veri e propri enigmi e sono sostanzialmente solo storie da seguire?
Sono bellissimi! The Wolf Among Us, The Walking Dead… sono gran giochi. Ultimamente ho apprezzato molto Return of the Obra Dinn, ma un gioco che ho apprezzato molto sul piano narrativo è Inside. Mi ha colpito tantissimo la capacità di raccontare una storia senza usare una singola parola pronunciata o mostrata a schermo. È veramente un’impresa! E ancora, Her Story è un’avventura splendida… Vedi, mi piace pensare che si tratti del genere più dinamico, perché è stato declinato in così tanti modi diversi, tutti validi. Lo stesso Beyond a Steel Sky è assolutamente un’avventura ma propone idee nuove in una maniera che i giochi tripla A non potrebbero mai permettersi, perché non si prenderebbero mai quei rischi. I giochi AAA da centinaia di milioni di dollari stanno diventando sempre più prudenti, e vanno bene, sono belli, vendono bene, ma i giochi indie, che sono molto meno costosi da sviluppare… Va detto che siamo fortunati, perché la comunità vuole amare i nostri giochi. Sono dalla nostra parte. E l’iniziativa Apple Arcade è fantastica per gli indie. Non mi hanno detto questa cosa in maniera esplicita ma credo il loro pensiero sia che, pur con tutti i vantaggi del free to play, per la loro piattaforma è molto importante che ci siano giochi indie interessanti e in grado non solo di sopravvivere, ma di prosperare. Per questo vogliono offrire un buon numero di giochi indie d’alta qualità tramite la sottoscrizione. Potrebbe essere un cambiamento epocale.
Visto che l’hai menzionato, non posso fare a meno di chiedertelo: si è parlato parecchio della possibilità che gli sviluppatori vengano pagati in base a quanto la gente gioca ai loro titoli…
Purtroppo non posso veramente parlare di quell’aspetto, però posso dire che Apple, con noi, è stata generosa ma non c’è alcuna restrizione, possiamo pubblicare su PC e su console, assolutamente quando vogliamo. Anche in contemporanea.
Quindi non c’è nessuna esclusiva?
Esatto. E infatti stiamo lavorando multipiattaforma. Detto questo, sul nuovo iPad, con HDR, il gioco è fantastico.
Ultima domanda, la faccio a tutti, anche se magari mi hai già risposto parlando di Inside ma… qual è l’ultimo gran gioco a cui hai giocato e perché lo ritieni un gran gioco?
L’ultimo gioco a cui ho giocato è Return of the Obra Dinn e ho apprezzato molto il fatto che ti permette di raccontare davvero una storia alla tua maniera, secondo il tuo ordine. E mentre lo fai, attraverso il gameplay, emerge questa storia splendida, la storia della nave. Lucas Pope è uno sviluppatore molto intelligente, tutti attendevano con ansia il suo nuovo gioco e non ha deluso!