Outcast

View Original

Columns era il puzzle game di consolazione | Racconti dall’ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

La gestione commerciale di un capolavoro incredibile, un gioco pressoché perfetto e capace di piacere a chiunque, ma nato nel bel mezzo della Russia comunista, non poteva che essere complicata e infatti i racconti su chi, come e quando riuscì a gestire i diritti di Tetris si inseguono al punto che è facile perdere il filo. Sega ce l’aveva per le mani sul fronte delle sale giochi giapponesi, mentre nel resto del mondo (o in gran parte dello stesso) girava il cabinato Atari col tizio che ballava, quello che giunse anche da noi, anche da me, anche nel baretto sotto casa. Chiaramente, l’occasione di portarlo sulla propria console a 16 bit era ghiotta ma un dettaglio era sfuggito (o forse non era sfuggito e ci avevano provato): non avevano i diritti per le versioni casalinghe. Così fu che il Tetris di casa Sega, ovvia conversione del coin-op, vide a malapena la luce in Giappone, facendo in tempo a diventare pezzo raro da collezione e svanendo più o meno del tutto. Tant’è che la stessa versione presente nel Mega Drive Mini è in realtà una conversione nuova di zecca. E quindi?

Your browser doesn't support HTML5 audio

Mega Drive Mini nei nostri ricordi | Outcast Speciale Outcast Staff

E quindi, a Sega, in quei momenti balordi a cavallo fra anni Ottanta e Novanta, girarono improvvisamente le palle a vortice. Davvero non c’era modo di cavalcare neanche un po’ l’onda lunga del successone di Alexey Pajitnov? Proprio nulla? Dai, un modo si trova, no? Quasi. Salta fuori che tale Jay Geertsen, nel 1989, aveva sviluppato Columns, un mezzo clone di Tetris che ne recuperava la formula “pezzi che cascano nel pozzo” ma la virava verso un modello basato sui colori da accoppiare. I pezzi erano composti da tre gemme colorate, che si potevano far ruotare per posizionarle, e se tre o più gemme dello stesso colore si ritrovavano collegate, sparivano, aprendo nuovi spazi e generando reazioni a catena. Ricorda niente? Chiaro, è il modello che oggi conosciamo come match three e che ha invaso il pianeta in molti modi diversi. Ma all’epoca era una buona idea, un modo intelligente per provare a cavalcare il successo fuori misura di quel gioco russo là infilandoci un twist personale, giocando tutto sommato di lieve anticipo rispetto ai tanti altri che si sarebbero gettati nella competizione di lì a pochissimo.

Geertsen, dopo averlo piazzato su svariati formati di personal computer, vendette Columns a Sega e garantì all’azienda giapponese il suo puzzle game di riferimento. Non era proprio Tetris, ma insomma, ci si accontentava ed era il caso di sfruttarlo abbestia: Columns venne portato su Mega Drive, riscosse un buon successo, fu proposto come primo gioco “allegato” al Game Gear, esattamente come Tetris lo era stato su Game Boy, e iniziò ad apparire praticamente dappertutto, fra conversioni e seguiti. Il paradosso? A un certo punto apparve perfino su Game Boy Color.

Il mio Columns, però, era quello per Sega Mega Drive. Onestamente, non ho alcun ricordo di come e quando me lo ritrovai in casa, se fu un acquisto fortemente voluto o un regalo spontaneo di mia madre. Ricordo però che avevo (ho, tutt’ora) la versione giapponese, con una copertina, un manuale, un’impostazione estetica molto più bella, viva e colorata rispetto a quella giunta dalle nostre parti. L’edizione PAL aveva la solita copertina quadrettata scura, come tutte le copertine quadrettate scure del Mega Drive europeo. Ma, diciamocelo, in questo caso ci stava una crema.

Ci stava una crema perché, diciamocelo, Columns era un po’ una palla. No, OK, forse esagero, ma per il me dell’epoca, un po’ lo era. Mancava di ritmo, mancava di verve, mancava di quel piacere istantaneo e travolgente reperibile nell’estasi suprema che è propria dell’idillio del Tetris. Lo schema di gioco era più lento a svilupparsi, più macchinoso, e non aiutava il fatto che le partite cominciassero incredibilmente lente, per poi conquistare un minimo d’abbrivio solo con l’incedere dei livelli. Immagino si potesse decidere di partire subito da un livello più avanzato, mi parrebbe surreale il contrario, ma nei miei ricordi, Columns è quella cosa lì, il puzzle game che parte lento, troppo lento, ci mette un sacco a ingranare e quando ingrana, poi, è pure divertente, ma finisce in fretta e si ricomincia da capo. Queste partite infinite, interminabili, nella costante ricerca di un brivido, un’emozione, che Columns faticava a darti. Era rilassante, toh. Era una specie di Tetris sul mio Mega Drive, da giocare in salotto, perché lo scassoncino catodico che avevo in camera non aveva la presa SCART a cui appiccicare la mia console giapponese. O forse ce l’aveva ma si vedeva tutto in bianco e nero, perché lo scassoncino catodico non era multistandard. Sono abbastanza sicuro di aver vissuto entrambe le situazioni. E va che bello, giocare a Columns in bianco e nero.

Per un attimo ci avevo creduto.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al Sega Mega Drive (Mini e non), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.