Al cuor non si comanda (e quello del collezionista, purtroppo, è un cuore che comanda sempre)
C’è una logica perversa che in qualche modo giustifica un comportamento altamente lesivo come quello di collezionare qualcosa. Fa parte del nostro sistema di sopravvivenza, ereditato dai nostri antenati cacciatori-raccoglitori: la necessità di trovare schemi e ricorrenze nella realtà che ci circonda, in modo da capire subito cosa rappresenti una minaccia e cosa un’opportunità per padroneggiare la conoscenza dell’ambiente in cui viviamo. Collezionare stimola la parte più “intellettuale” di questo adattamento evolutivo: più divento bravo a riconoscere schemi, più gli schemi devono essere complessi, a volte anche sfavorevoli alla sopravvivenza stessa. Se vogliamo, collezionare è la versione ludica di questa strategia evolutiva, riletta alla luce della celebre definizione di gioco di Bernard Suits “il tentativo volontario di superare ostacoli non necessari” (La cicala e la formica, 1978).
Pensa a quando ascolti la musica. La prima volta che senti un brano jazz o progressive metal, ti può sembrare difficile da digerire, ma se insisti (perché magari una sequenza del brano ti entra subito in testa), allora comincerai a riconoscere gli schemi sottostanti di un intero genere musicale, ad apprezzarli e, addirittura, anticiparli. A quel punto, tornare a certa musica pop, ti sembrerà tempo sprecato. Con i videogiochi accade lo stesso, superato lo scoglio di un Elden Ring, chi te lo fa fare di giocare a uno Stellar Blade qualsiasi (oltretutto, mio GOTY 2024)? E così accade con qualsiasi altra forma di intrattenimento a cui veniamo esposti con regolarità. Il piacere del collezionismo sta proprio nell’imparare a riconoscere certi schemi per assecondare il desiderio di padroneggiare un determinato campo di interesse e, tramite il possesso, ottenere la Conoscenza Finale (per il timore, a volte inutile e ingiustificato, di non poterlo più fare in futuro, o di vederlo fare prima agli altri).
Chiaro, se parliamo di collezionismo, la disponibilità economica fa la differenza. Da bambino potevo solo collezionare giochi piratati (per lo più perché non avevo mai avuto la possibilità di entrare in contatto con le versioni originali, non sapevo nemmeno esistessero…) e le riviste di settore mi servivano non certo per orientare gli acquisti, piuttosto per capire quale fosse il vero titolo di Super Piero per dare un senso a una raccolta sterminata di file su nastro magnetico, come farebbe un vero ricercatore che incrocia dati, cerca analogie e fa speculazioni per creare una tassonomia in un campo eterogeneo di contenuti.
Quando sono passato alle console, avevo già cominciato ad avere uno stipendio che veniva proprio dalle riviste di videogiochi, e mi sono sentito in qualche modo “più” giustificato a comprare e collezionare. Era pur sempre il mio lavoro, no?!, e quella poteva essere considerata una sorta di formazione continua… Ahimè, in quanto videogiocatore “proletario”, ho ancora il rammarico per aver ceduto/svenduto le collezioni del passato per poter passare alle generazioni correnti. Ma tant’è… Nei momenti di grande euforia, invece, questo approccio mi ha permesso di uscire dai budget e fare follie.
Quella più grave? Febbraio 2000: Dead or Alive 2, edizione giapponese, per Dreamcast. 190.000 lire!
Non avevo mai visto qualcosa di così incredibilmente fluido e dettagliato (in realtà sì, la prima volta che mi è apparso davanti Soul Edge su PSone, ma ero un universitario fuori sede e i lavori stagionali non permettevano nemmeno di pensare a certi lussi). Ma torniamo a DOA2: la regia dei combattimenti era sbalorditiva, le coreografie combinavano mosse senza soluzione di continuità, i personaggi erano tutti incredibilmente sexy e svestiti… Per mezz’ora, in negozio, ho sfidato chiunque si avvicinasse alla postazione per difendere il territorio. Il proprietario, amico di un amico, mi ha lasciato fare. In ritardo per un appuntamento, sono riuscito a resistere alla tentazione dell’acquisto di impulso e sono uscito dal negozio. Vana resistenza. Dopo qualche ora, sono tornato e l’ho comprato senza neppure negoziare sul prezzo. Eccitato e felice, sono corso a casa.
Ok, può non sembrare una spesa folle. Secondo la rivaluta ISTAT, 190.000 lire di allora corrisponderebbero a 156€ odierni. Il prezzo di una collector edition.
C’è, però, un grosso “ma”.
Non avevo un Dreamcast. Né PAL né NTSC. Non avrei mai potuto giocarci. Sicuramente non quel giorno o nelle settimane successiva. Ma non era importante. Se non potevo giocarci io, allora non avrebbe potuto giocarci nessun altro in provincia di Parma! Sapevo, in cuor mio, che prima o poi avrei recuperato un Dreamcast e, se necessario, un adattatore o un trasformatore o qualsiasi altra diavoleria per far girare questo titolo di importazione così eccitante. In quel momento, il possesso contava più dell’uso effettivo…
In effetti, qualche mese più tardi arriverà un Dreamcast PAL, ovviamente con la versione PAL di Dead Or Alive 2 (che non girava altrettanto fluida) e, nel frattempo, negli uffici de Il Mio Castello, era riemersa una console giapponese che stava già prendendo polvere nascosta dietro a chissà quale pila di riviste, dandomi la possibilità di sfidare i colleghi durante le pause pranzo.
Ma la morale della storia è un’altra. Anni dopo, quando il sogno di fare carriera nell’editoria era ormai tramontato da un pezzo e i figli avevano sottratto gran parte del tempo agli hobby, mi sono ritrovato a leggere questa frase, fotocopiata sulla porta dello studio in cui andavo a fare yoga: “La vera felicità non consiste nell’avere ciò che si desidera, ma nel desiderare ciò che si ha”.
Ora colleziono costosissimi robot giapponesi dei cartoni animati della mia infanzia.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle spese pazze che affrontiamo (o non affrontiamo) per le nostre passioni, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.