Ma alla fine, Dead Space è davvero un survival horror? | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Lo spazio può essere un posto molto pericoloso, e tra le vittime dello spazio, quando lo spazio è un posto molto pericoloso, ci può essere un genere che su PSX rappresentava la frontiera più avanzata del gaming: il survival horror. A essere precisi il survival horror non è morto nello spazio, ma in un paesino della Spagna mentre un contadino pazzo gli urlava UN FORASTERO! Però tre anni dopo qualcuno ha detto di averlo avvistato nello spazio, ma quello non era il survival horror bensì un pezzo del suo armamentario: uno zombi, un fantasma o l’organismo infettato da un parassita, insomma il surrogato di una cosa che prima era differente. Fuor di metafora, sto dicendo che il primo Dead Space, quello del 2008, non è un survival horror, come spesso invece si dice. Al contrario è un videogioco (lasciamo stare di che genere) horror: la differenza sta tutta qui, nella perdita della parola survival, ma a questo ci arriviamo tra un attimo.
A marzo di quest’anno uscirà un remake più impegnativo del remake di Dead Space, se stiamo a guardare il peso specifico che ciascuno dei due giochi ha all’interno della storia del medium. Si tratta del rifacimento di Resident Evil 4. Ho sempre trovato ironico che il survival horror sia stato consegnato a una grossa fetta di pubblico dalla persona che nove anni dopo lo ha sotterrato. Con Resident Evil del 1996, Shinji Mikami portò il genere su PlayStation, cambiando la percezione di chi definiva quella scatola grigia “una cosa da bambini” (lo stesso anno non sarà più neanche una “cosa da maschi”, ma questa è un’altra storia, che a un certo punto riguarda un maggiordomo chiuso in un freezer). Nel 2005, Leon Kennedy doveva salvare la figlia del presidente con un sacco di armi e proiettili a disposizione: bello, bellissimo, a dire la verità uno dei giochi più belli e importanti di sempre. Un survival horror? Eh no, signora mia.
Mi spiace di averla presa così alla lontana, però trovo significativo che tra le principali ispirazioni dei creatori di Dead Space ci sia proprio il capolavoro di Capcom: un action in terza persona horror? Un action-adventure in terza persona horror? Chiamatelo un po’ come volete, ma sappiate che a questo punto dovreste chiamare Dead Space allo stesso modo, tenendo presente che la parola horror (che infatti ricorre anche al cinema) si riferisce a una qualità del gioco, mentre gli aspetti che attengono al gameplay sono riassunti in “survival”. Dead Space un survival horror? Oddio se proprio insistete…mah, forse sì, potrebbe anche esserlo, ma si tratterebbe comunque di un’accezione estensiva del genere, che manda un po’ in confusione i trentenni come me cresciuti a pane e lickers. Noi, che su Facebook abbiamo inventato quel format che inizia con “ma che ne sanno i 2000 di…”.
Ma che ne sanno i 2000 dei comandi tank, degli sfondi prerenderizzati e della telecamera fissa come un’inquadratura in un film di Romero? Che ne sanno loro di cosa si prova a restare inchiodati sul posto mentre uno zombi ti alita sulla nuca, oppure a girare l’angolo e trovare uno zombi che prima non potevi vedere, perché eri nell’inquadratura contigua? Eh? Cosa ne sanno?? (probabilmente tantissimo perché i 2000 sono molto più svegli di noi alla loro età). Quello che intendo sottolineare, con questa tirata nostalgica e ageista, è che la genialità del survival horror dipendeva dal fatto di legare la sua ragion d’essere ai suoi stessi limiti, che quindi aggiungevano, non sottraevano, al generale senso di paura: far di necessità virtù, si dice. Poi macchine più potenti, cioè la generazione di PS2, hanno rimosso quei limiti: alcuni generi ne hanno guadagnato, il survival horror è finito allo sbando per incapacità di rinnovarsi, infine ha finito per immolare sull’altare di alcune meccaniche action una parte della sua anima (quella survival) e trovare così una nuova ragione di esistere, o forse non-esistere, o esistere a metà.
Ho giocato a Dead Space di recente e mi sono ricordato perché ce lo ricordiamo. È bello, moderno, insomma mi ha divertito anche adesso che di anni dalla sua uscita ne sono passati quasi quindici, al punto che non sono sicuro di sentire il bisogno di giocare al remake. Però devo ammettere che l’entusiasmo di essere tornato a bordo della Ishimura si è un po’ raffreddato quando non sono riuscito a declinare la meccanica dello smembramento secondo una logica da survival horror. Intendo dire che, per abitudine, tendo a risparmiare i proiettili, sapendo che le mie chance di sopravvivenza in un survival horror sono direttamente proporzionali alla disponibilità di risorse nei momenti più delicati. Ho deciso allora di spezzare l’arto di sinistra di un necromorfo per tentare un aggiramento, appunto, a sinistra: una scelta che si sarebbe dovuta tradurre in diverse munizioni risparmiate.
All’atto pratico la mia strategia non ha funzionato (lo stronzo mi ha falciato lo stesso) e in generale non è mai una buona idea tentare la fuga con i necromorfi, sia perché sono in grado di inseguirti attraverso i condotti dell’aria, sia perché a volte lasciano cadere più colpi di quelli che si sono sprecati per ammazzarli. E poi le munizioni si comprano, capite? Mi sarebbe bastato questo per realizzare che gli sviluppatori non intendono lasciare la fuga tra le possibili opzioni. E allora ben venga puntare sulla meccanica dello smembramento, sul posizionamento procedurale dei nemici, su quel senso di minaccia incombente dato dalla presenza delle ventole sopra, sotto, alle spalle di Isaac Clarke. In Dead Space il giocatore viene mantenuto perennemente sull’attenti, riflessi pronti ma armi belle cariche (quattro, da poter rapidamente alternare), ed è questa credo la ragion d’essere del lavoro di Visceral Games. Ma i survival horror denavorta lavoravano il giocatore ai fianchi, facendolo sentire piccolo piccolo rispetto alla portata dell’orrore che si era abbattuto sul mondo, infilavano sotto la pelle quell’impressione di camminare su una corda. C’è un altro aspetto che mi fa pensare alla differenza tra Dead Space e i classici degli anni Novanta: nel primo caso, si è tanto parlato dell’eliminazione dell’HUD, obiettivo perseguito dagli sviluppatori ed esaltato nei risultati da una parte della critica. Ma l’eliminazione dell’HUD è roba da fps! Quando mai Resident Evil aveva l’HUD? E era il 1996… .
Certo, per alcuni aspetti Dead Space è in linea con la prassi del survival horror, ad esempio per il senso di solitudine, quindi capisco che si scomodi una delle definizioni alle quali noi, cresciuti videoludicamente nella seconda metà dei 90s, siamo più affezionati. Ripeto, in fin dei conti dipende da quanto si vuol tenere alta l’asticella, da quanto rigide si vogliono rendere le definizioni. Non riesco a immaginare quanta consapevolezza fosse necessaria per fotografare il cambiamento di Resident Evil 4 e Dead Space in diretta, quindi non posso biasimare la stampa specializzata che all’epoca definì il secondo un survival horror (ok poi magari sei James Stephanie Sterling e hai una rara dose di consapevolezza e predittività). Per quanto riguarda i gggiovani, invece, immagino che la loro idea di survival horror si sia formata con 15 anni di differenza rispetto alla miae quindi a prescindere da Resident Evil, Silent Hill, Parasite Eve, etc. Ma a questo punto credo avrebbe più senso ragionare di Amnesia, Outlast (a proposito, qui trovate una chiacchierata col compositore della colonna sonora), Alien Isolation e Resident Evil 7, che sono gli eredi più coerenti, rispetto a Dead Space, dei survival che hanno fatto innamorare la mia generazione.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata allo spazio, che trovate riassunta a questo indirizzo.