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Videogiochi in mostra a Londra: Design/Play/Disrupt

Per un videogiocatore che dovrà passare tre mesi a Londra, la consapevolezza di non avere una TV in casa - senza possedere un notebook performante, uno Switch o dispositivi simili - è qualcosa che non si augura neanche al peggior nemico. Fortunatamente, la metropolitana della capitale inglese ha il cuore d’oro e ti aiuta a superare almeno in parte questo trauma: dopo soltanto due giorni di permanenza in terra anglosassone, sulla banchina della fermata Holborn, mi ha sbattuto in faccia la pubblicità di una mostra dedicata ai videogiochi, di nome Videogames: Design/Play/Disrupt, al Victoria and Albert Museum fino al 24 febbraio 2019. God save the Queen.

Naturalmente, l’intento è quello di andarci il giorno dopo ma, ricordandosi di avere un lavoro e dovendosi ancora ambientare nella perfida Albione, questo è praticamente impossibile. Le due ore di anticipo nella vita quotidiana rispetto all’Italia si fanno sentire, perché va bene tutto, ma chiudere un pub alle 23:00 è proprio da stronzi, quindi questa visita viene continuamente rinviata ma, all’improvviso, l’amico che abita a Londra da quattro anni e che non ti aspettavi fosse interessato al magico mondo videoludico ti propone di andare a visitare la mostra. God save the Queen and i suoi compaesani (anche se acquisiti).

Dopo questa incredibile notizia, non recarsi al V&A Museum sarebbe stata veramente una mossa da gaglioffi, quindi, per la modica cifra di diciotto sterline (dodici se siete studenti o avete l’aspetto da giovane studente), due italiani pizza-mafia-Super Mario+Rabbids sono entrati in un luogo buio, molto buio, ma altrettanto molto ben organizzato, che finalmente verrà descritto nelle prossime righe, per chi non ha (ancora) avuto la possibilità di visitarlo.

Fin dall’ingresso, è il sopracitato buio a regnar sovrano, mettendo così in risalto due teli illuminati e su sfondo bianco, contenenti a chiare lettere il manifesto della mostra, su cui viene spiegato cosa troveremo nella prima sezione sulle quattro presenti: i processi creativi di otto giochi, da progetti AAA a prodotti di studi formati da una sola persona, che si sono fatti riconoscere per il loro design. Fortunatamente, gli organizzatori non hanno creato una mostra formata soltanto da spiegazioni prolisse di come, dove, quando e perché il gioco sia stato sviluppato ma sono riusciti a rendere visibili bozzetti, video mai resi pubblici e altro materiale utilizzato in fase di ricerca e sviluppo.

Dopo questo manifesto, il primo gioco che si incontra è Journey, una produzione che sul design ha riposto praticamente tutta la sua attenzione, seguito poi da due produzioni pienamente AAA uscite in esclusiva su PlayStation: The Last of Us e Bloodborne. Dopo Sony è il momento di Nintendo con il suo Splatoon, a cui seguono Consume Me, sviluppato in totale autonomia da una studente di nome Jenny Jiao Hsia, il più conosciuto Kentucky Route Zero, sviluppato da la bellezza di due persone, il lavoro dei Tale of Tales di nome The Graveyard e infine No Man’s Sky.

Ogni gioco ha una sua precisa installazione, contenente in tutti i casi alcuni bozzetti e i vari disegni legati al design delle produzioni, ma come già accennato, per ogni sezione è presente una chicca, o comunque qualcosa di particolare e quasi esclusivo, che rende la mostra veramente interessante e ben congegnata. Per Journey, ad esempio, è possibile vedere il Nintendo DS su cui Matt Nava, l’art director, ha disegnato i primi bozzetti del gioco, in un periodo in cui l’iPad non era ancora così diffuso. Nel caso di The Last of Us, invece. è mostrata una parte di un cortometraggio che sembra un fan film in stile Metal Gear Solid: Philanthropy ma che in realtà è un video, diventato poi short film, ideato e interpretato dagli sviluppatori per capire meglio come rappresentare determinate scene e situazioni del gioco.

Tra i materiali legati a Bloodborne, non ci sono pseudo fan film ma vari quaderni, pieni di idee per i mostri e le armi del gioco, assieme a una piccola sezione dedicata alla colonna sonora e, infine, un particolare video su quattro schermi dove è possibile vedere lo scontro contro il primo boss del gioco. Su uno schermo viene mostrato uno scontro dall’esito positivo commentato da uno youtuber, mentre negli altri schermi sono visibili le mani che utilizzano il controller e tutti i precedenti tentativi di sconfiggere il boss, con le relative morti. Sembra un’idiozia, e probabilmente lo è, ma ha il suo fascino, bisogna ammetterlo.

Tra i vari contenuti disponibili dopo la sezione dedicata alla produzione di From Software, è possibile trovare molti lavori legati all’ambientazione e ai personaggi di Splatoon ma anche sui quintilioni di pianeti di No Man’s Sky o l’immedesimazione con la signora anziana di The Graveyard, ma a mangiarsi la scena è la parte dedicata a Kentucky Route Zero. Innanzitutto, è uno fra i giochi più interessanti della mostra, sia per come è stato, anzi, ancora viene sviluppato, che per il design sicuramente accattivante. In secondo luogo, in questa parte della mostra è presente un vero e proprio quadro di Magritte, direttamente da Washington, da cui gli autori del gioco hanno preso spunto per una scena del secondo episodio.

Le Blanc-Seing, René Magritte.

In mezzo alle altre cose interessanti, come semplicemente la possibilità di provare direttamente il gioco dei Tale of Tales, di cui il 99% dei bambini che lo hanno provato non ha capito del tutto il significato, o la sezione dedicata al gioco Consume Me, ci sono anche contenuti meno ricercati, come la linea di abbigliamento di Splatoon. Ora, monetizzare su un prodotto di successo ha senso, ma le magliette e le felpe di questa linea sono al limite dell’imbarazzo, soprattutto se pensate addosso ad una persona con più di quattordici anni sulle spalle. Ma torniamo alla mostra.

Finita questa prima sezione, dove naturalmente sono presenti altri materiali e informazioni che si aggiungono a quelli sopra descritti, si passa in una grande stanza dove il puro design dei videogiochi lascia spazio a temi definibili importanti per la nostra società, come l’utilizzo delle armi, la disparità tra i sessi nel campo videoludico, l’educazione sessuale, la presenza degli afroamericani nei videogiochi, la critica politica/sociale e anche semplicemente la difficoltà degli sviluppatori arabi nel dover imparare un nuovo alfabeto per poter lavorare.

Per ognuna di queste tematiche, è presente una grande scrivania con uno o più giochi dedicati, come Phone Story, per quanto riguarda la critica sociale e politica, o Mafia III, per la presenza di un protagonista di colore in un gioco in grado di ritrarre fedelmente una determinata società americana. Naturalmente, ogni gioco trattato ha una precisa descrizione, che illustra il motivo della sua presenza, questo anche nel caso di Tropes vs. Women in Video Games di Anita Sarkeesian, l’unico non videogame in questa sezione assieme al video proiettato su un muro della stanza, dove diverse figure del mondo dei videogiochi, da sviluppatori a producer, rispondono a domande inerenti i vari temi tratti dai giochi della stanza.

Passando alla stanza successiva, si arriva ad una specie di cinema, con i posti a sedere presenti soltanto lungo le pareti laterali, dove è possibile come prima cosa sedersi e riposarsi, poi vedere un breve video di circa dieci minuti, nel quale vengono spiegati l’attuale grande diffusione dei videogiochi e il fatto che ci sono milioni di persone interessate a questo media, capaci tra l’altro di riempire un’intero stadio coreano per le finali di League of Legends. Se state leggendo Outcast, siete sicuramente già informati su tutto, tranquilli, quindi non serve spiegare i numeri di EVE Online, Overwatch o Minecraft.

L’ultimo stanza, dopo essersi riposati con il video per non giocatori, è una piccola sala giochi con soltanto produzioni più indie degli indie, dove sia il software che l’hardware sono stati prodotti dai creatori dei giochi. Tra questi, è possibile ad esempio provare un simulatore di guida sedendosi nei sedili anteriori di una macchina, appositamente tagliata e trasportata dall’Australia per l’occasione. Oppure è possibile giocare in cooperativa con altre quattro persone ad un gioco tanto semplice quanto divertentissimo, nel quale due amanti, gestiti da altrettanti giocatori, devono riuscire a toccarsi in una stanza, mentre gli altri tre partecipanti devono semplicemente mettersi in mezzo. Strano ma vero, giocare con tre bambini di dieci anni è stato incredibilmente divertente, nonostante le urla sfonda timpani.

Per concludere, questa è soltanto una “breve” descrizione di quello che è possibile vedere alla mostra Videogames: Design/Play/Disrupt, la cui visita è consigliata se vi interessa la possibilità di conoscere qualche aspetto meno noto riguardante la produzione dei alcuni dei giochi che tutti ben conosciamo o a cui abbiamo giocato direttamente. Una descrizione più dettagliata la trovate nel Podcast dedicato, ma il consiglio spassionato di recarsi al Victoria and Albert Museum resta lo stesso, anche solo per vedere un Magritte dal vivo o visitare il resto del museo che, ringraziando sempre la Regina, è gratuito ed immenso.