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Dishonored, lo 007 steampunk | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Se ripenso a dieci anni fa e a Dishonored penso ad un momento che in un certo senso mi ha cambiato la vita, o comunque ha sicuramente condizionato il mio tempo libero. Uscivo da una “crisi videoludica” abbastanza pesante, come succede a un sacco di gente, roba normale, serena; avevo semplicemente perso interesse, gradualmente e in modo apparentemente inesorabile, fin quando non incrociai lo sguardo di Corvo Attano (mi è sempre sembrato il nome di un personaggio di Maccio Capatonda e la cosa mi va veramente troppo ridere) che mi scrutava l’anima attraverso la sua maschera, in quelle spettacolari cover art streampunk che l’hanno reso una figura iconica dell’immaginario videoludico, perfetta immagine per un instant classic entrato a gamba tesa e coltello in mano sul mercato.

Io che nel mio torpore videoludico vengo sorpreso da Dishonored.

Lo stealth era a quei tempi il mio modo preferito per relazionarmi con un gameplay d’azione, coi suoi tempi compassati, la pianificazione accurata e poi la soluzione a colpo sicuro, letale, implacabile, esattamente come l’avevo immaginata. Una spolverata alla PS3 fat, disco nella sua pancia e… Amore, amore ai tempi della peste a Dunwall, dove i ratti erano grossi come gatti. Il fatto che fossi particolarmente giovane, mai stato PCista e, per un motivo o per l’altro, avessi quindi sempre mancato opere come il Deus Ex di Warren Spector, Thief, System Shock e gli altri baluardi del filone “immersive sim”, creò quella meravigliosa illusione delle cose nuove, mai provate, totalizzante nel suo essere esperienza così vivida da sentire intorno il tanfo di quei vicoli putrescenti, dove la gente comune aspettava di essere consumata dalla peste, contrapposto al profumo delle case borghesi, la cera sul pavimento, i fiori freschi nei vasi, rifugio di quei vertici politici e militari che usurparono il legittimo trono della principessa Emily Kaldwin, pronte a diventare scene del delitto, gogne, macelli, i loro marmi pregiati macchiati indelebilmente di sangue; oppure umiliati, minacciati, spaventati a tal punto da collaborare.

Ma guardate qua che roba, che art direction incredibile!

Una sensazione di controllo sulle vite dei nemici che fino ad allora, a memoria, non avevo mai sentito così forte, trasformando ogni esecuzione in un atto feroce, personale, vendicativo, e ogni vita risparmiata in grazia, sollievo, benedizione (soprattutto per chi la riceveva), dando un senso ai “percorsi” che portavano il finale verso la redenzione o verso il caos, lasciandosi guidare dalle situazioni, dall’umore, dall’istinto. Perché una cosa che rendeva così speciale Dishonored era sicuramente la sua libertà d’azione, la verticalità del level design, la portata devastante dei poteri sovrannaturali di Corvo, capace di manipolare il tempo, teletrasportarsi, evocare orde di ratti e controllare le menti che, se lasciati fluire una volta sbloccati e potenziati, potevano consciamente mettere in ombra l’anima stealth dell’opera, senza per questo rovinarne il gameplay; era una scelta, parte stessa di un’immedesimazione che non sarebbe stata tale se imbrigliata in comportamenti obbligati, legati a un bon ton di gameplay che è invece semplicemente suggerito e mai imposto. Un’indole anarchica che lo rendeva totalmente diverso da un Metal Gear o da uno Splinter Cell (diversi anche come impostazione generale, per carità), praticamente impossibili da giocare in modo alternativo, rendendo altrimenti l’esperienza dissonante, stridente, semplicemente confusa e poco divertente, coi timpani rotti dalle urla del colonnello Campbell.

Un frame del famoso film Pixar Ratatouille.

Dishonored sembrava invece una mod della quest sulla gilda dei ladri di Oblivion che avesse preso vita propria, diventando un’opera a sé stante, confezionata in una direzione artistica fuori di testa, capace di mescolare tra loro influenze contrastanti per creare un mix unico, con quei walker stile Guerra dei mondi e una particolare fascinazione per le balene alla Moby Dick. L’elemento sovrannaturale così pervasivo, denso come nebbia, contestualizzato in quell’atmosfera Vittoriana che sembrava fatta apposta per riscrivere e reinterpretare le atroci gesta di Jack lo squartatore (e le leggende più esoteriche ad esso collegate), trasformandolo in uno 007 dell’occulto al servizio di sua maestà, disonorato e in cerca di redenzione. “Attano, Corvo Attano”, avrebbe potuto tranquillamente presentarsi così in quella missione pazzesca alla festa in maschera di lady Boyle, un twist (narrativo e ludico) elegantissimo che prendeva pieghe quasi da punta-e-clicca (e che avrebbe anticipato un certo mood dei futuri Hitman); l’atmosfera rilassata, sfarzo, alcool, chiacchiere noncuranti di gente insensibile alla morte che strisciava là fuori e che, inconsapevolmente, l’aveva fatta entrare in casa propria, come un batterio pronto a diffondersi in un ambiente asettico. Un po’ Bond, un po’ Eyes Wide Shut, per una scena distintiva dell’intera opera e che, incidentalmente, ha fritto la mia PS3 con tanto di LED giallo della morte e salvataggi nel cesso: il me stesso di qualche mese prima avrebbe mollato il colpo, ma ormai la scintilla era scoccata.

Certo, Hitman le faceva già cose del genere, ma questa particolare missione di Dishonored ne ha impreziosito e svecchiato la formula, con i ringraziamenti di IO Interactive.

Con tutti gli acciacchi del caso, Dishonored rimane comunque un capolavoro sotto tanti punti di vista, capace in un colpo solo di elevare lo studio di Lione a software house di primissimo piano e dando a Bethesda la possibilità di creare il padre, il figlio, lo spirito santo e il Doom Slayer del videogioco in soggettiva, con i suoi prodotti gargantueschi al centro, id Software e MachineGames alla sua sinistra e Arkane a destra, la quale ha avuto però la sfortuna di raggiungere il successo nel momento in cui, pensandoci a posteriori, stava iniziando il periodo letargico dell’immersive sim a livello commerciale, con Dishonored 2 che quattro anni dopo riuscì a tenere botta, mentre Prey e Deathloop hanno tutto sommato delineato quella che è, ad oggi, la dimensione contenuta di questa nicchia di genere. Ma spesso il valore culturale va ben oltre quello commerciale e dieci anni dopo, la loro opera più famosa è ancora qui a fare proseliti, nascosta, nell’ombra, proprio come piace al suo protagonista.