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Eastward: pensavo fosse amore e invece era un calesse

Eastward è una stranissima creatura.

Ti ammalia, sin dai trailer, con una veste visiva assolutamente fuori parametro; un’abbondanza di dettagli di pixel assurda, totalmente superflua e per questo bellissima. Sin dai primi dei numerosi passi delle peregrinazioni di John e Sam è possibile osservare tocchi di classe ovunque, piccole crepe tutte diverse nei muri, cartelloni pubblicitari di pixel tutti differenti… Insomma, il colpo d’occhio è inebriante ed è in grado di trascinarti nell’opera prima di Pixpil.

Alcuni scorci di Eastward sono magnifici, sia per “regia” che per colori e resa.

Ed è certamente un gioco ricco di rimandi ad altre opere, alcuni gridati sin da subito, altri invece da scoprire. Non è un mistero che Earthbound sia un’influenza, tanto da aver ispirato - almeno nel titolo - un intero ma corposissimo minigame che nel look & feel è a sua volta ispirato a sua volta a un altro mostro sacro del gioco di ruolo giapponese, cioè Dragon Quest.

E se il rapporto tra Sam la piccola bambina e l’omone forzuto John poi mi ha ricordato, sebbene alla lontana, un bel po’ di The Last of Us. c’è persino un po’ di Sekiro nelle parti finali del gioco: una bella sorpresa considerando che nelle parti iniziali il mood è totalmente dedicato alla scoperta e alla simpatia dei personaggi di contorno con tanto di NPC dedicato a Miyazaki. 

Ma soprattutto c’è tanto The Legend of Zelda.

Ma proprio tanto.

Ne tira più (pizze) una padella che un carro di Master Sword.

Ed è una delle parti migliori e al contempo sorprendenti del gioco, ancor più all’inizio. Nonostante il mood, lo storytelling e il look dei “dungeon” proposti sia molto diverso - e anche il loro inserimento all’interno dell’esplorazione, molto più organico - il feeling è davvero quello di un titolo della grande N, a volte. Le spadat.. ehm, padellate di John sono fluidissime e goduriose, gli enigmi semplici e rodati quanto avvincenti e tutto scorre benissimo. La trama di gioco, tanto criptica quanto affascinante, è puntellata da personaggi di contorno irresistibili e non è raro ritrovarsi a parlare più volte con gli NPC nella speranza di carpire qualcosa di più sul retaggio di Sam, sulle origini di John e sul perché il mondo di gioco è minacciato dal “miasma”, fantomatica entità oscura che pare voglia inglobare tutto.

Giochi di pixel dentro giochi di pixel: Earthborn pesca a piene mani da Dragon Quest ed è BELLISSIMO.

L’Eastward infatti che da il nome al gioco è più una destinazione - che il titolo - di un lungo viaggio che accompagnerà più di 15 ore la strana coppia, tra risate, drammi e dubbi. Molti dubbi. 

L’affascinante inizio infatti non trova mai reale soluzione a tutti i suoi interrogativi, neanche ai titoli di coda. Il viaggio dei due e in particolare di Sam, pur prendendo dei turning point e delle svolte piuttosto consistenti, non trova una destinazione solida e i grattacapi anzi aumentano più si prosegue nel gioco. In maniera del tutto proporzionale al rallentamento del ritmo di gioco.

Appare un Miyazaki selvatico!

Perché Eastward è palesemente un gioco schiacciato dalle sue stesse ambizioni. Ed è un gran peccato. Il ritmo incalzante iniziale lascia spazio a una storia che, per dipanarsi, si prende troppo tempo e troppi momenti morti. Gli spazi di distensioni creati per permettere una costruzione di nuova normalità prima del nuovo punto di rottura lasciano posto al tedio di un andamento che si riempie di fetch quest, andirivieni tra vicoli per fare la spola tra un NPC e l’altro, minuti e minuti dove si vorrebbe scoprire qualcosa di più ma in realtà si è costretti a incedere lentamente perché.. perché onestamente non ne comprendo il motivo.

Forse la voglia degli sviluppatori di creare qualcosa di più “ampio respiro”, forse invece necessità produttive che ne hanno reso meno curate alcune parti… non lo sapremo mai. 

So che per certo invece mi posso dire è che Eastward verso il quinto capitolo si fa detestare un po’, come quando ci si aggrappa a una relazione che forse va un po’ troppo per le lunghe.

Artwork criptici per giochi un po’ troppo criptici.

Ed è forse per questo che scatta un po’ di rabbia e, talvolta, rigetto. Perché Eastward davvero aveva tutte le carte per essere un capolavoro, uno di quei titoli indie che lascia il segno, un po’ come altre celeberrime opere prime quali Undertale e Celeste. E invece ti lascia un po’ così, inebriato da una veste grafica pazzesca, sorpreso dalla sua natura di “mostro di Frankenstein” pieno di idee rubacchiate qua e là ma dotato inspiegabilmente di una forte identità, e deludente perché non vuole - né arriva - in fondo a un punto.


Un gran bel giocare - perché le parti “zeldose” sono fatte con cura certosina e azione ed enigmi si incastrano fantasticamente - che risente del “troppo” giocare, alla faccia di chi si lamenta che i giochi di oggi durano troppo poco. Che peccato!