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Etrian Mystery Dungeon: bella senz’anima

Può un gioco dalla struttura palesemente riuscita, che meriterebbe anche un voto intorno all’otto o all’ottanta per cento, che dir si voglia, essere contemporaneamente bollato come una “cacchetta” da sconsigliare? Il buon senso direbbe di no, il nuovo sistema di votazione promosso da Outcast concede una possibilità. Possibilità che, recensendo Etrian Mystery Dungeon, ho colto al volo, dando un profilo diverso all’analisi e al testo che leggerete: non più una didascalica ed esplicativa recensione, tesa a far notare pregi, difetti e la qualità complessiva, ma una disamina sull’opportunità di amalgamare due titoli diametralmente opposti per ritmo e modalità di divertimento, con la meccanica soggiacente al gioco che non riesce, seppur collaudata, ad eguagliare in qualità espressiva né la saga di Shiren the Wanderer né quella di Etrian Odyssey.

Prendiamo il genere Mystery Dungeon (o Fushigi no Dungeon), creato da Chunsoft nei primissimi anni Novanta. Le saghe che lo contraddistinguono sono Fuurai no Shiren e Torneko no Daiboken: gioielli. In particolare, l’epopea di Shiren racconta di una struttura di gioco ineguagliata e ineguagliabile, capace di infondere nel suo dispiegarsi stati d’animo evidenti: paura, tensione, rabbia, ma anche godimento e soddisfazione allo stato puro. Una escalation emotiva che sorge grazie a una programmazione sapiente, capace di equiparare la complessità delle sfide proposte alle caratteristiche degli strumenti messi a disposizione. Per ogni problema c’è una soluzione: questo l’aforisma che accompagna la deambulazione nei labirinti casuali. Il giocatore è confinato in uno stato di debolezza sempiterna, ma allo stesso tempo ha la facoltà di escogitare tanti stratagemmi quanti sono gli oggetti di cui riesce a impossessarsi, e inventare così gioco, applicando tattiche personali a ostacoli in apparenza insormontabili. Azione e logica fusi alla perfezione in un ritmo veloce ma ragionato, dove una partita segue l’altra, morte dopo morte, errore dopo errore, conoscenza dopo conoscenza.

Cortesemente, il lettore non deve cercare quanto detto in quella innominabile produzione chiamata Pokémon Mystery Dungeon: noiosissima e annacquata serie dalla quale tenersi a ragionevole distanza.

Per la presenza dei quattro personaggi, Etrian Mystery Dungeon ricorda un po’ Dramatic Dungeon: Sakura Taisen Kimi Aru Ga Tame. Quello però contava sul fascino delle protagoniste dei Sakura Taisen… mica poco!

La saga di Etrian Odyssey manifesta il suo essere ostica e difficile in ben altra maniera: i ritmi sono più lenti, l’esplorazione incentrata sulla scoperta piuttosto che sulla fuga, il combattimento focalizzato sulle abilità acquisite invece che sugli strumenti, l’avanzamento legato alla crescita del gruppo di guerrieri piuttosto che sulla consapevolezza del giocatore stesso. Il bello risiede nella scoperta: dei luoghi da tracciare col pennino e dei modi per aggirare gli avversari più temibili. Il piacere aumenta in modo lineare, passo dopo passo, scoprendosi più forti dopo aver livellato, venduto pelli e oggetti, comprato armature e modificato le abilità. Si ragiona sul gruppo, sulle risorse, sugli item salvavita. È un tempo lungo, scandito dagli andirivieni, dalle compravendite e dal desiderio di essere più forti.

Intelligenza, scaltrezza e sangue freddo da una parte; animosità, potenza e capacità gestionale dall’altra.

Come fondere istanze tanto diverse?

Partendo dalla struttura di gioco, intanto. Da questo punto di vista Chunsoft (o per meglio dire Spike Chunsoft) è riuscita in un sorta di piccolo capolavoro. Etrian Mystery Dungeon non è solo la sintesi ordinata di due giochi diversi, ma qualcosa di più, un prodotto dotato di qualche idea innovativa.

A proposito di idee, ottimo il modo in cui vengono gestite le abilità in battaglia: un paio di tasti combinati e si evita di entrare nei menu!

Fondamentalmente si gioca un Mystery Dungeon come se fosse un Etrian Odyssey. Prendete uno dei primi tre Etrian Odyssey e sostituite ai dungeon da disegnare quelli a formazione casuale. Ritrovate i negozi, la pletora di armi, le classi tra cui scegliere, il party a più guerrieri, le risorse da vendere per guadagnare denaro, qualcosa di simile ai F.O.E. (quei mostri ultra potenti che minacciano l’esplorazione), i boss di fine percorso e i punti di teletrasporto per tornare in città. Il tutto condito da tante sottomissioni, lo sviluppo dei negozi e la solita storia pseudo-misteriosa con tanto di (pallido) colpo di scena finale.

Dei Mystery Dungeon rimangono la formazione casuale dei labirinti, che può essere parzialmente bloccata grazie alla costruzioni di appositi fortini (con annessa possibilità di inscenare memorabili battaglie a otto guerrieri contro i F.O.E.), la rappresentazione grafica, il sistema di combattimento a turni, gli oggetti sparsi qua e là, un inventario ricco delle canoniche pergamene e dei nuovi sigilli e l’impossibilità di ricaricare le partite: quando si muore, si torna al villaggio, il gioco salva in automatico e si perde parte dell’equipaggiamento, del denaro e l’intero inventario trasportato.

Funziona, quindi? Sì e no. Funziona la struttura di gioco, dicevo, ma le emozioni latitano.

La struttura regge perché Chunsoft e Atlus hanno curato ogni più piccolo particolare per salvaguardare le caratteristiche di ambo i giochi e per cercare di aggiungere qualcosa di nuovo: intanto, l’esplorazione a quattro. A dispetto di tutti i Mystery Dungeon precedenti, compreso quel Fuurai no Shiren 3 che pur ci aveva ostinatamente provato, poter esplorare i labirinti in gruppo è finalmente impresa possibile e godibile. Etrian Mystery Dungeon riesce a gestire la molteplicità grazie a un’intelligenza artificiale minimale e condensata, con i partner che raramente se ne vanno per conto loro, e grazie a una serie di input che permettono di allestire manovre d’insieme, di cambiare il leader a piacere e di combattere contro i boss controllando ciascun guerriero. Certo, la gestione oculata degli oggetti, i movimenti furtivi, la fuga dalle stanze più bellicose e la plasticità nell’inventare soluzioni mirate, tipiche delle avventure solitarie di Shiren o Torneko, vanno bellamente a farsi benedire, trasformando presto l’esplorazione attenta e ragionata in un: vai-distruggi-tutto-quel-che-si-muove-e-torna.

Super mossa speciale et voilà, anche la situazione più complessa si risolve combattendo!

Eccellente l’applicazione ai labirinti delle abilità specifiche di ciascuna classe: ogni guerriero è unico nel suo genere e completa le abilità altrui in una oculata fisionomia di gruppo. I soldati avanzano in prima linea, seguiti da chi colpisce a distanza e protetti dai guaritori e dai modificatori di stato nelle retrovie. Diverse combinazioni sono possibili, con un riscontro pratico nell’esplorazione. Soprattutto il combattimento con i sopracitati F.O.E. (o D.O.E. in questo gioco) regala sensazioni forti, dato che per avere la meglio su tali bestioni bisogna prima riuscire a confinarli in una pluralità di stati negativi (blocco delle abilità o delle parti del corpo) e poi colpirli il più velocemente possibile. Dare ai wanderer e ai ninja abilità come camminare sulle acque o scavare cunicoli funziona solo in parte: ottimo nelle rare missioni in singolo, quasi inutile nella processione di gruppo (salvo quando si tratta di scovare stanze nascoste). Tra l’altro, procedere in gruppo non è un’opzione: tentare di piegare il gioco alle istanze soliste è quasi impossibile, la struttura è radicalmente pensata per la pluralità. Encomiabile infine la gestione del gruppo per quanto concerne gli avanzamenti di livello: grazie ai fortini da piazzare nei labirinti, che fungono da difesa contro l’avanzata dei F.O.E., ogni guerriero collocato negli stessi trova piacevoli punti esperienza gratuiti, che permettono di avere numerosi elementi tra cui scegliere sempre all’altezza della situazione.

Si gioca quindi per quaranta e passa ore con un certo piacere. Dopo la missione principale, completabile con notevole facilità, si aggiungono ulteriori obiettivi: nuovi rami del labirinto, le cave con i draghi tipiche di Etrian Odyssey e un doppio tentativo vagamente scialbo di imitare il pluridecorato labirinto dai cento piani dei Fuurai no Shiren (che, come ogni buon appassionato della serie potrà testimoniare, rappresenta a tutti gli effetti il gioco vero e proprio, la sua quintessenza).

Si procede con un certo piacere, dicevo, ma poco per volta si scorge tristemente il limite del gioco: non si muore, non si patisce alcunché. Si avanza certo con molta più attenzione che in un Mystery Dungeon edulcorato qualsiasi (quelli coi Pokémon, i Chocobo, e i tanti titoli analoghi prodotti da altre case di sviluppo), ma la passione vera non sgorga mai. Ci si intrattiene gestendo il party, si esulta per qualche manovra ben riuscita ma, signori, non c’è quella cristallina sensazione di paura che i Fuurai no Shiren sanno trasmettere. Il giocatore è troppo potente, aiutato da un party di guerrieri che guadagna livelli e abilità velocemente e che si getta nei labirinti con tonnellate di aiuti (oggetti di tutti i tipi, quantità enormi di salvavita, possibilità infinite di scappare tornandosene in un lampo al villaggio).

Le situazioni tendono decisamente a ripetersi…

Del resto, la struttura di gioco di un Etrian Odyssey, sulla quale come detto Etrian Mystery Dungeon fonda l’intero suo dispiegarsi, non è compatibile con la morte reiterata unita alla decurtazione dei livelli e alla perdita di inventario. Non è compatibile nemmeno con l’uso della fantasia. Vince la potenza: delle armi, delle abilità, degli oggetti. Innegabile che sia piacevole alternare i guerrieri e trovare combinazioni per avere la meglio sui diversi avversari, ma il tutto si riduce a lineari missioni sempre uguali nella sostanza e nella pratica: si distrugge tutto. Anche perché, proprio a causa della fisionomia a gruppo, non c’è verso di muoversi con circospezione. Per esempio, non si può uscire alla chetichella da una stanza con troppi avversari, dato che i membri guidati dalla CPU si lanceranno all’attacco! Non c’è traccia di finezza, di funamboliche serpentine tra i nemici, di astute mosse per addormentarne uno, indispettirne un altro e confonderne un terzo: fendenti, fendenti, fendenti, alternati a incantesimi e a stucchevoli magie di stato che rallentano il ritmo (avere in gruppo un hexer, un defender e un dancer può essere mortale in termini di attesa, se tutti e tre cominciano a potenziare il gruppo e a depotenziare il nemico).

Sarà anche noioso, ma un buon defender spesso ti salva la vita…

I labirinti e i nemici stessi sono pensati strettamente per questa modalità di azione: unidirezionali e poco vari. Nessuna struttura ad handicap, niente variazioni sul tema. Dove sono i labirinti speciali, tipici di ogni Mystery Dungeon che si rispetti? Quelli che rendono un’esperienza di gioco normale (finire la storia) un qualcosa di unico (i labirinti di sopravvivenza dove un colpo vuol dire morte, quelli al buio, quelli con le trappole da riciclare, quelli in cui trasformarsi nei nemici per sopravvivere, e via elencando), insomma, quelli che aggiungono alla mera azione l’esperienza puzzle-strategica. Il massimo concesso qui è, nelle fasi avanzate, labirinti ghiaccio-fuoco-tuono oppure posti densi di nemici e trappole urticanti. Nulla che spezzi la monotonia di andare, combattere all’arma bianca e tornare. I nemici stessi, presi di peso da Etrian Odyssey, contano su una tipicità appena sufficiente. La più parte di essi attacca di forza, qualcuno si limita a lanciare una magia, un paio esplodono, il più dispone di abilità inutili se paragonate alle capacità rigenerative del gruppo gestito dal giocatore. Non c’è nessuno di veramente subdolo.

Ho già detto che non si muore?

Bene, lo ripeto: in un gioco che fonde due saghe che fanno della morte il cardine esperienziale, non si muore! O si muore raramente, per dabbenaggine o inesperienza nella più parte del gioco, per improvviso accanimento dei nemici negli ultimi due labirinti (comunque completabili). E paradossalmente è bene che sia così, perché se si morisse come si muore nei titoli menzionati sarebbe la fine, per pesantezza e frustrazione. La struttura, come dicevo, è perfetta così com’è. Densa per le cose che bisogna fare, ma anche fluida nel dispiegarsi se si fanno bene i compitini. Si passa molto tempo a preparare il gruppo, poco a inventare soluzioni. Si gestisce e… si prova a non annoiarsi quando si entra in azione. Struttura rifinita, pensata e ripensata, con applicazioni finali frutto di esperimenti e considerazioni, ma incapace di trasmettere emozioni concrete.

Quindi, in definitiva, è un gioco che ha poco senso di esistere. Anche appagante se si cerca qualcosa di relativamente impegnativo, di certo profondo quanto basta per lasciarsi giocare qualche decina di ore, ma emotivamente povero, lineare, sintetico: logico in quel che propone, arido nel rapporto col giocatore.

Ulteriore dimostrazione del fatto che il genere Mystery Dungeon funziona solo quando il suo team di sviluppo è libero di esprimersi nei canoni sublimi da esso stesso dettati: lì dove c’è paura e immaginazione. Senza questi fattori, un Mystery Dungeon è in definitiva scarna ripetizione. La logica del mercato, con i Pokémon Mystery Dungeon che vendono oltremodo e questo Etrian Mystery Dungeon appetibile per i fan della saga Atlus, impone alla piccola Spike Chunsoft esperimenti che rendano accessibili al grande pubblico le sue esclusive formule di gioco. Il risultato è questo: bella senz’anima.

Il risultato è un Etrian Odyssey mortificato dai dungeon casuali e un Mystery Dungeon rallentato da tutto ciò che è Etrian Odyssey. Il gioco funziona perché realizzato con cura e arricchito da tante trovate intelligenti che lo rendono omogeneo, armonico e coerente dall’inizio alla fine. Quasi impossibile trovare difetti intrinseci alla formula approntata. Per questo è buono e va considerato in sé e per sé come tale. Eppure, aprendo l’analisi a una visione globale, che tenga conto del genere di appartenenza, delle saghe di provenienza e del potenziale in esse racchiuso, del piacere che da esse scaturisce, non si può evitare di constatare come Etrian Mystery Dungeon sia costretto a rincorre sia il “padre” sia la “madre” senza essere né l’uno né l’altro, financo incapace di esprimere qualcosa di autentico. Tanto vale, ed è meglio, tornare su Etrian Odyssey III o IV, oppure rischiare il giapponese con Fuurai no Shiren 5 nel recente porting per PS Vita.

Ho comprato in un negozio nostrano Etrian Mystery Dungeon, con la sua bella scatola priva di manuale e dei bonus presenti nella versione americana, uscita qualche mese fa, ivi compreso il CD delle splendide musiche di Yuzo Koshiro. Della serie: aspettare di più, pagare altrettanto (o di più) e avere di meno. Ho giocato parecchio, ma non so quante ore: non mi sembra che il salvataggio indichi l’ammontare. E comunque in quei dannatissimi menu dalle scritte lillipuziane non si vede nulla! Ho traguardato un po’ tutto quel che c’era da traguardare… e sono rimasto a bocca asciutta. Mi aspettavo tanto ma tanto di più!