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Racconti dall'ospizio #210: Old man yells at Cloud

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Io Midgard, Cloud, i Turks e la Kujata materia li ho adorati. Genuinamente adorati. Final Fantasy VII (che ricordo ancora di aver comprato all’Esselunga, per PC, solo perché la scatola mi aveva colpito) non è stato solo il mio primo Final Fantasy, ma pure il primo JRPG a cui abbia giocato, e da allora rese imprescindibile l’acquisto di quasi ogni gioco Squaresoft.

Altrettanto chiaramente, ricordo lo scorno e il disappunto delle prime fasi di gioco: va bene i filmati fighissimi, va bene il salto dal treno alla banchina e i combattimenti con i personaggi che passano da pupazzetti monchi a figure con una dignità, ma tutto il resto aveva un linguaggio che per me, totale neofita, era abbastanza complesso. Uno dei meriti del gioco è stato infatti quello di imporre un genere al resto del mondo, genere peraltro non esattamente immediato. Grazie a una certa linearità e semplicità (ché il gioco era tutto tranne che difficile), Sakaguchi e Kitase confezionarono un titolone che non solo è praticamente universale ma riesce anche, toccando le corde giuste e uscendo al momento giusto, a entrare nella storia e guadagnarsi il pass “esci gratis di prigione” quando se ne parla (pass che notoriamente impedisce di vederne i difetti e impone di considerarlo perfetto e attuale anche se ‘sta fava che era perfetto e tantomeno è attuale).

Dicevamo del mio amore sconfinato per Final Fantasy VII: ecco, è finito. Sia chiaro: continuo a considerarlo uno di quei pochi titoli che hanno, in un modo o nell’altro, cambiato la storia dei videogiochi, oltre che una fra le singole esperienze che più mi hanno colpito e formato, ma il suo essere diventato un totem intoccabile, nemmeno per colpa sua, me lo ha fatto andare in antipatia. Per me, Final Fantasy VII è un po’ come la serie TV Lost: entrambi sono due esperienze che ho amato alla follia, ma che si sono potute sviluppare diventando quel che sono perché erano contestualizzate in un preciso momento storico e tecnologico. Per Lost fu l’estremizzazione dello sviluppo orizzontale e la spinta infinita su enigmi e suggerimenti, che crearono una community online di gente che passava settimane a decifrare ogni piccolo segnale, per Final Fantasy VII fu la discontinuità con il passato, l’imponenza dell’opera e l’utilizzo di un linguaggio, supportato da filmati al limite del mai visto prima, che cambiarono il taglio di come certi giochi venissero presentati.

Esattamente come Lost, che se uscisse oggi, non avrebbe tutto quel seguito (ché se togli a quella serie la messa in onda settimanale, le togli metà della potenza), anche il primo Final Fantasy per PlayStation non potrebbe competere con come siamo abituati a interpretare i giochi oggi. E non parlo solo di presentazione, ma proprio di tutto: gameplay, stile, tempi,  scrittura: Final Fantasy VII è stato un gioco meraviglioso e importante ma non ha, per come la vedo io, il piglio del classico che può resistere senza problemi al passare del tempo. Quel superpotere lo hanno, per inciso, pochissimi giochi, e perlopiù “essenziali” (ché il gameplay base dato dal corri, salta e spara è al limite dell’universale e quasi non invecchia, a differenza dei mastodonti).

L’idea che mi sono fatto di Final Fantasy VII è che sia l’equivalente videoludico degli anni Ottanta: tutti se li ricordano con indulgenza perché sono stati l’ultimo periodo felice prima della catastrofe: ci si cotonava i capelli, si ignorava che fumare faceva venire il cancro, si inquinava senza percezione e in generale si aveva l’impressione (come nella belle époque) che da lì in avanti le cose sarebbero solo potute migliorare.

E invece, il cazzo.

Per Final Fantasy, le cose non sono molto diverse: allora i giochi erano più “comprensibili”, esperienze più contenute e spesso rifinite, con meno potenzialità ma che davano forse un senso di compiutezza maggiore. Oltretutto, queste sono distorsioni generate dal fatto che, crescendo, monta senza ragione la convinzione che si stava meglio quando si stava peggio, perché personalmente non cambierei nulla di quello che esce in questi anni con quello che usciva nell’epoca PlayStation. Forse proprio nulla no, ma ci siamo capiti.

Quello che mi fa forse più male è che tutta la serie sia diventata una clava utilizzata dagli animi reazionari per certificare quanto si stesse meglio prima, quando Cloud girava con la moto e la Buster Sword, quando, in realtà, il concept dei Final Fantasy ruota intorno al cambiamento e alle rivoluzioni: ogni iterazione è sempre stata segnata dalla discontinuità con il passato (a parte un paio di episodi collaterali), con la voglia (il bisogno?) di rinnovamento e con il non voler produrre sempre lo stesso gioco, nello stesso mondo, con le stesse meccaniche.

Final Fantasy VII è stato un meravigliosa tempesta perfetta, che non deve però essere considerata unica o irripetibile: è vero che certe cose le ha fatte meglio di altri, ma la stessa cosa era già successa in passato e non è detto che non succeda anche in futuro. C’è il remake, per esempio, che nemmeno a farla apposta, condivide con l’episodio VII di Star Wars lo stesso numero. L’operazione che sta mettendo in piedi Square Enix ha diverse analogie con quella di Disney (al netto del fatto che uno è un remake de facto e l’altro reale), ed è basata su un concetto più grande: un’intera generazione, Final Fantasy VIII lo ha solo sentito raccontare o ci ha giocato quando evidentemente era fuori tempo massimo; il remake servirà sia a dare la possibilità a loro di vivere il loro “nuovo” settimo episodio, sia, ci si augura, a dare vita a una nuova stagione, nella quale il marchio torni realmente universale.

Nonostante l’antipatia subentrata in anzianità, nonostante l’utilizzo improprio del suo lascito, nonostante un milione di altre cose, Final Fantasy VII rimane un’opera monumentale, a cui bastano due note di Uematsu o un video di pochi secondi nel quale uno zarro biondo derapa su una moto per far partire un brivido sulla schiena, perché anche se semplice nello sviluppo e a tratti confuso nella trama, il più importante di tutti i Final Fantasy ha saputo far virare la serie verso delle ambientazioni più moderne e di presa, ha creato personaggi indimenticabili e ha avuto un coraggio che produzioni attuali si possono solo sognare. Non è probabilmente il migliore dei Final Fantasy, ma è certamente il più importante.

E io, anche solo scrivendone di nuovo, mi rendo conto che vorrei giocarci di nuovo da capo a piedi. Ma poi lo installo, lo avvio e vedere quei buffi personaggetti senza uno stile definito (visto che varia tra combatimento, animazioni e mappa) mi fa ogni volta ricordare perché ho deciso di non giocarci più e lasciarlo là, tra i ricordi della gioventù, dove non c’è noia dell’evocazione continua di Knights of the Round che possa rovinarne il ricordo.

Insomma, se volete giocarci sulla nuova scatoletta della nostalgia fatelo pure, probabilmente non ve ne pentirete, ma non mi venite dire che è attuale ancora oggi, perché mi parte la barella.

Volete leggere un altro Racconto dall’ospizio su Final Fantasy VII? Cliccate qua.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a PlayStation Classic e alla prima PlayStation, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.