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Forza, il cambio automatico e il declino della civiltà occidentale

Forza motorsport (il 2 nello specifico) è stato il mio Gran turismo.

Non avendo avuto console Sony fino alla PlayStation 4, non ho mai avuto sudditanza verso la serie. È una mia lacuna culturale probabilmente incolmabile? Assolutamente, ma ormai è tardi per guardarsi indietro e mettere mano a tutti i capitoli usciti fino ad ora, e tanto vale andare avanti.

Forza è stato il mio Gran Turismo anche per il legame che ha unito le auto che al momento guidavo con il gioco a cui stavo effettivamente giocando: invece di “ottenere” patenti in gioco, la ottenevo nella realtà.
Mentre giocavo a Forza 2, guidavo una Fiat 500, non il modello Abarth che veniva consegnato nella mani virtuali del giocatore all’inizio della carriera, ma la sua sorella piccola, diesel, sottoalimentata, ottima macchina per neopatentati, ma adesso non ci metterei mai mano.

Mentre giocavo a Forza 3, guidavo una Alfa Romeo MiTo, auto di straordinario successo commerciale, tra le altre cose, e un deciso passo in avanti nelle mie esperienze di guida, nonostante non fosse la Quadrifoglio del gioco ma la sua sorella minore, di nuovo con motore diesel, 1.3, 95cv. Bene ma non benissimo: era più comoda, era più macchina, aveva un buon allungo, ma un posteriore troppo pesante per i miei gusti, nonostante i lussuosi sedili in pelle frau rossi, il selettore di guida e altre cazzatelle simpatiche che mettevano nelle Alfa all’epoca del grande rilancio commerciale.

Poi ci sono stati anni di vuoto, non automobilistico, per carità: l’automobile è ancora il mio mezzo di trasporto preferito, con buona pace del traffico, del prezzo del gasolio arrivato alle stelle e tutta una serie di cose raccapriccianti come il surriscaldamento globale, il downsizing, il cambio automatico e i motori elettrici. O l’omologazione stradale.

Non ho avuto una console Microsoft su cui proseguire con i Forza fino all’ultimo Forza Horizon, che ha segnato il grande ritorno di Xbox a casa mia, con una umile ma onesta Serie S. Il mio più grande rammarico è stato quello di non trovare sul Game Pass tutti i capitoli di Forza che mi sono perso in questi anni di assenza. Anche volendo sorvolare sulla serie Motorsport, un po’ rigida e bacchettona chiusa nella sua carriera schematica e tutto sommato priva di vera gioia, è stato più difficile soprassedere sull’assenza della serie Horizon, a cui non giocavo dal primo capitolo per 360.

Quando è uscito il nuovo Forza Motorsport, mi ci sono buttato di faccia. Ho cancellato tutta una pletora di giochini indie e meno indie che affollavano il disco della Serie S per fare spazio. Ho avviato il download una settimana prima del day one. Avevo veramente voglia di giocare a un nuovo Forza, o nello specifico, a un “gioco di macchine” con quell’ambizione, tra il divertito e l’enciclopedico, non totalmente simulativo, ma nemmeno all’acqua di rose, con quella ricostruzione attenta ai modelli, quel modello di guida scalabile ma non proibitivo. Il nuovo Forza Motorsport è stato come tornare a casa, con tutti i limiti e i difetti del caso, ovviamente trascurabili sul piano del discorso generale.

Forza mi ha insegnato a cosa servono i pezzi dentro la macchina. Non mi ha davvero insegnato a guidare, a quello ci ha pensato Dirt Rally, con tutto quel tutorial sullo scarico dei pesi, ma questa è un’altra storia. Forza mi ha insegnato che oltre al pedale dell’acceleratore c’è di più. Che detto adesso può essere scontato, ma non è sempre stato così automatico, soprattutto venendo da un’epoca in cui Need for Speed: Most Wanted era ancora un paradigma e l’unica cosa di cui avevi veramente bisogno erano i neon sotto alla macchina (che poi è storiacamente una cazzata inventata da Fast & Furious quando dovevano camuffare gli orribili effetti speciali delle corse clandestine, e chi dimentica è complice).

Imparare a cosa servono i pezzi della macchina, come si usano i freni, soprattutto, che la traiettoria è una cosa importante e che tutte le curve ne hanno una ideale da seguire per non schiantarsi: tutte quelle cose che a scuola guida non ti insegnano perché troppo presi da inezie come gli stop, i semafori, i segnali di precedenza, i divieti di sosta. A che serve la sosta in una scuola guida? Dovrebbero fare una “scuola sosta” a parte.

Horizon, invece, mi ha insegnato tutto il resto: l’auto come sogno edonista, che non importa dove vai ma come ci vai, sbloccando tutta una ulteriore chiave di lettura che mi allontana dalle “auto grosse, costose, europee” in cui si è trasformata l’automotive di massa contemporanea, in favore di piccoli gioielli dimenticati, capolavori di design mossi da un desiderio antievoluzionistico di sparire dalla storia, in un mercato sempre più orientato a frustrare le velleità sportive del ceto medio, fino a trasformare le auto in salotti al cui centro troneggia lo schermo piatto di un simil iPad che risponde al tremendo appellativo di “infotainment”.

Che già quando vedo un quadrato tachimetro-contagiri digitale che emula la lancetta analogica mi metto storto.

Sembra essere un discorso retrogrado e conservatore, e per certi versi lo è, ma anche una forma di resistenza che cerca nell’auto il calore di un’emozione e che non la vede solo come una spesa in accollo per andare dal punto A al punto B. L’automobile è la forma della libertà, non solo di andare dove vuoi, ma soprattutto COME vuoi, e penso solo che il mondo perda parte della sua bellezza quando i mezzi per percorrerlo si riducono drasticamente nelle fasce di prezzo, nelle forme e nei modelli.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Motori in pista”, che potete trovare riassunta qua.