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God of War, il fantasma di Sparta a zonzo tra le lande di Odino

È  innegabile che l'immaginario norreno negli ultimi anni sia diventato fonte di ispirazione per vari media, dal cinema alle serie TV, passando ovviamente per i videogiochi. Non so se sia stato il successo di Thor nell’universo cinematografico Marvel a dare il via a questa onda, o se il merito sia da dare a Vikings,  o se semplicemente era tempo che anche Odino e la sua progenie diventassero materiale da merchandising, ma in pochi anni siamo finiti circondati da guerrieri muniti di asce e martelli da guerra, pronti a combattere fino a che il sacro fuoco della guerra non devasti tutto.

Certo, anni fa, quando Kratos mulinava le sue spade del caos nell’antica Grecia, non mi sarei mai immaginato di vederlo in un setting diverso, così lontano da Zeus e da tutti gli intrighi tipici del gotha dell’olimpo. Il fantasma di Sparta è sempre stato il simbolo della vendetta, della furia di un uomo che, privato dell’unica cosa che avesse mai amato, la sua famiglia, aveva deciso di far crollare l’olimpo e tutte le divinità che fino a quel momento l’avevano semplicemente usato per i loro scopi. 

Sono un grandissimo appassionato della saga di God Of War e ho giocato tutti i titoli del franchise, passando tra le varie generazioni di console, fisse e portatili. Con God of War 3, però, pensavo che la storia di Kratos avesse raggiunto una degna conclusione (il modesto Ascension non lo considero). La vendetta si era consumata e il sua missione era conclusa.

Sony e Santa Monica Studios, però, hanno deciso di abbracciare l’ormai sicuro successo del setting scandivano cambiando radicalmente Kratos e il suo modo di essere. Non più un guerriero assetato di sangue e di giustizia ma un uomo che ha combattuto tutto quello che c’era da combattere e ora vive nascosto, con un figlio non particolarmente “degno” per i suoi standard (cosa che mi ha ricordato il rapporto iniziale tra Hiccup e suo padre Stoick di Dragon Trainer), con l’unico desiderio di essere lasciato in pace.

Ammetto che la cosa inizialmente mi ha spiazzato e per diverse ore di gioco non sono riuscito a capire se questo nuovo Kratos mi stesse piacendo o se preferivo quello solo furia e lame che volteggiano tra le carni dei nemici. Avevo affrontato il gioco senza leggere praticamente nulla di trama e ambientazione e sinceramente mi aspettavo che dopo pochi secondi il nostro caro fantasma di Sparta (ora con una barba da boscaiolo norvegese) iniziasse a mulinare mazzate come se non ci fosse un domani. E invece no. Ma non era solo questo a rendermi perplesso. C’era anche il virare verso un genere di gioco meno action e più ragionato, con abilità da aumentare, armi da forgiare, tutte cose che sul momento ho trovato fuori luogo per un titolo della serie di God of War

E poi, ma questo mi rendo conto sia ormai un problema solo mio, c’erano le scalate delle montagne. Lo so, quasi nessuno ci fa caso ma si sicuro non mi aspettavo di ritrovare in un’avventura di Kratos quello che io chiamo “l’effetto Uncharted” ovvero l’arrampicarsi su sporgenze varie con compagno di scalata al seguito, praticamente senza poter mai sbagliare, per sezioni anche discretamente lunghe. È un problema che ho con tutti i giochi, eh, ormai, da Jedi Fallen Order a Horizon, quando mi ritrovo a dover salire una parete di roccia mi deprimo non poco.

Tutto questo per dire che l’impatto con il God of War ambientato nel mondo di Odino non era stato inizialmente dei migliori, però la mia intransigenza su gameplay e gestione delle statistiche pian piano che si avanzava è stata non solo ridimensionata ma del tutto zittita dalla maestosità di un gioco che, al netto di qualche ingenuità inevitabile di trama, soprattutto nel rapporto con il figlio, è veramente un’opera di altissimo livello. 

Tecnicamente sbalorditivo (parliamo sempre di una PlayStation 4), God of War del 2018 riesce a creare un mondo vivo, pieno di personaggi unici che forse non avranno lo stesso appeal di quelli della mitologia greca, ma mi hanno permesso di entrare in contatto con un contesto, quello norreno, che nei videogiochi avevo approcciato in una maniera così forte solo in Hellblade: Senua's Sacrifice.

Quello però che mi ha convinto definitivamente del fatto che God of War rimarrà per molto tempo tra i miei preferiti è tutta la parte finale, le ultime due o tre ore di gioco, un crescendo di emozioni, di coinvolgimento, anche grazie alla pazzesca colonna sonora composta da Bear McCreary, dove l’ascesa verso la sommità del monte non significa come in passato cercare il proprio nemico per ucciderlo brutalmente, ma ricordare una persona amata che all’inizio dell’avventura sembrava quasi dimenticata e nel corso del cammino si fa strada nei sentimenti dei due protagonisti.

God of War è un gioco imperdibile per l’utenza Sony e anche se sarà cross-gen, Ragnarok probabilmente sarà il primo titolo che mi convincerà a cercare seriamente una PlayStation 5, schivando bundle criminali e “offerte” di dubbio gusto.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vichinghi, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.