Golden Axe è un po' come I ragazzi del muretto | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Golden Axe fa parte della mia triade. Quella che, insieme con Out Run e Super Hang-On, a ridosso degli anni Novanta, quando i videogiochi erano sostanzialmente un'entità bellissima su cui non avevo controllo diretto (giocavo a quello che c’era in sala giochi d’estate o a quello che mi spacciava mio padre), mi faceva desiderare ardentemente di avere una console Sega. Ed è una cosa buffa, questa, perché io una console Sega, alla fine, non l’ho mai posseduta. Dopo un’infanzia e un’adolescenza vissute esattamente come Lorenzo, nonostante sia di qualche anno più giovane (sì, questa è gratuita, #sorrybutnotsorry), legato per tradizione paterna al mondo dei personal computer, anche quando ho iniziato ad avere il controllo delle scelte nel campo dell’intrattenimento ho comprato soltanto console Sony e Nintendo, sviluppando pure un discreto feticismo postumo per il Super Nintendo. La realtà è che però, tra i due colossi del gaming classico, sono sempre stato molto più attratto da Sega e, anzi, confesso di essere tra quelli che desideravano il Game Gear. Ma insomma, qui sto scantonando.
Il motivo banale è che sin da piccolo, alla fine, per rendermi felice bastavano pochissime cose, in campo videoludico: una macchina, una moto o qualsiasi roba fantasy. Ci aggiungevo giusto il calcio, ma quello, insomma, su computer era più che coperto. A voler vedere la cosa da una certa prospettiva, ammetto che i miei gusti in fatto di videogiochi non sono poi cambiati così tanto, in ogni caso ricordo che ci fu un’estate, in vacanza al mare, in cui i cabinati di Out Run, Super Hang-On e Golden Axe erano praticamente uno di fianco all’altro e non so quanti soldi ho fatto spendere ai miei genitori. Tra l’altro, se i due giochi di guida erano un fatto abbastanza privato, che al massimo condividevo con mio padre (sempre perché era difficile arrivare alla pedaliera, mentre il manubrio di Super Hang-On, invece era molto più comodo, per un nanerottolo come me), Golden Axe era un gioco che mi faceva sentire grande, perché ci giocavano anche mia sorella e i suoi amici, tutti più vecchi di me di sei o sette anni.
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Con Golden Axe, è stata la prima volta, nella mia vita, che ho visto il videogioco come rituale sociale, in grado di rompere i confini della famiglia e di farmi confrontare con il mondo esterno. Un mondo affascinante, fatto di gente più grande, con cui, però, in gioco ero praticamente un pari, dato che non ero meno bravo di loro. E quindi ricordo che ci si alternava, io prendevo sempre Ax Battler perché su, cioè, era il meglio che un ragazzino di più o meno sette anni potesse desiderare. Mia sorella e la sua amica prendevano Tyris Flare, in una divisione di genere molto manichea, che oggi fa un po’ ridere e che ci dice tanto sugli anni Novanta. Il resto della compagnia si divideva tra Ax e Gilius Thunderhead, ingiustamente poco considerato, nonostante le sue capriole. Ci sono tanti aneddoti che ricordo distintamente, delle serate passate a mangiare il gelato e finire Golden Axe, dalle urla di una delle ragazze della compagnia (Olga) che, innamorata dell’attacco in salto di Tyris, scatenava un “UATATATATATATA” antologico ai pruriginosi apprezzamenti quando l’amazzone mostrava (con il suo costume sgambato) le grazie posteriori al popolo in fuga. Tutte cose che col senno di poi sono fotografie dell’età, di un’ingenuità che sfociava nell’essere totalmente senza mezzi per comprendere quello che stava succedendo, proprio come se fossimo ne I ragazzi del muretto o in una canzone degli 883. Però eravamo lì, un nugolo di ragazzini di età diverse, assolutamente non tutti appassionati di videogiochi, uniti nel tentativo di sconfiggere Death Adder. Stavamo creando un linguaggio condiviso ma, alla fine, a noi interessava solo menare la vipera mortale.
Penso che questo elemento, nel tempo, sia una fra le costanti della mia esperienza con Golden Axe, sia essa in altre sale giochi, sia essa su Amiga, con la conversione vibrante ma non completa (con la sbatta di dover lanciare le magie con la barra spaziatrice), sia essa su Mega Drive, che oltre ad essere la conversione migliore, aveva anche due livelli supplementari e la modalità Duel, cosa che mi ha fatto rosicare per anni, che permetteva di sfidare in combattimenti singoli i diversi mostri del gioco. Alla fine, ricordo, io provavo a difendere la mia Amiga e la sua palette cromatica più bella, però no, la verità è che la versione Mega Drive ci stava troppo dentro e la desideravo, sì che la desideravo.
Nonostante i rimpianti, il gioco di SEGA è stato, storicamente, uno dei primi jolly che ho incontrato, uno di quei titoli che, a prescindere da chi ci fosse in stanza, andavano sempre bene a tutti, su ogni piattaforma, in qualsiasi momento. Quello che prova a vendere Nintendo da anni agli aperitivi, insomma, nella mia vita l’ha sempre fatto Golden Axe. L’ho finito innumerevoli volte, in compagnia delle persone più disparate, o anche da solo, e ancora oggi, se dovessi definire il videogioco per eccellenza a qualcuno che non sa bene cosa siano, lo utilizzerei come esempio insieme ad Out Run. Come raccontava il buon Peduzzi qualche mese fa, in occasione dei trent’anni del gioco, la creatura di Makoto Uchida funziona perché riesce a mettere insieme una serie di elementi familiari a un vastissimo pubblico, creando una dimensione di partecipazione banale, ma sempre efficace. È una storia fantasy di redenzione, vendetta, salvezza, raccontata per archetipi e condita da quel pizzico di leggerezza a cui è difficile resistere. Poi è il classico gioco “easy to learn, hard to master”, che mette d’accordo il videogiocatore e quello che vuole saltare in groppa a un drago facendo cose a caso.
La verità, e sono trent’anni che me lo dico, è che Golden Axe non ha mai fatto nulla in maniera eccellente, ma ha sempre fatto tutto benissimo, e ancora oggi basta molto poco per rievocarne la magia, anche grazie a una colonna sonora che fa venire il magone brutto non tanto per la nostalgia, che per carità, fa il suo, ma perché è maledettamente catchy e perfetta per il gioco. Il tema principale, o anche il pianoforte che accompagna la penna che racconta il viaggio degli eroi, sono le note che forse, rappresentano, prima di ogni altre, la mia passione per i videogiochi e la voglia di condividerla. Tra l’altro, ci sono ancora tante cose che mi chiedo quando gioco a Golden Axe, eppure ogni volta è la stessa storia, perché a partire dal momento in cui il mio personaggio parte per salvare i più deboli e vendicare l’amico ucciso, la sospensione dell’incredulità ha fatto già il suo e sono lì, dentro a colpire sulla nuca gli scagnozzi della vipera.
In primis, abbiamo un livello su una tartaruga e un altro su un'aquila, dalla cui schiena, tra l’altro, escono scheletri (mi ha sempre fatto molto ridere). Questa cosa è data per normale, e ci mancherebbe altro, visto che siamo in un mondo fantastico, ma mi ha sempre fatto pensare a una roba folle: e se in realtà i personaggi fossero piccoli piccoli e fosse tipo una storia in stile “piccolo popolo del tappeto”? D’altra parte, inizialmente, i personaggi li scegli da una mano scheletrica umanoide, quindi la tesi per cui sono in realtà dei piccolissimi esserini, secondo me, è davvero valida. Ancora: ma i nani che portano i polli, seriamente? No, dico, seriamente, quanto cattivo gusto, e quanto eravamo ingenui, nello scalciarli felicemente. Anche il finale meta, in fondo, mi ha sempre fatto ridere, per il modo in cui, ordinatamente, escono tutti dalla sala giochi come se ci fosse una ragione valida per farlo. A conti fatti, però, il finale di Golden Axe è un fantastico modo per spiegare cosa si intenda per rottura della quarta parete, in versione for dummies. Domande esistenziali a parte, Golden Axe resta una fra le pietre angolari della mia carriera da videogiocatore e, sinceramente, scrivendo questo articolo, ho la tentazione di prenotare il Sega Mega Drive Mini per giocarci ancora una volta, sull’ennesimo dispositivo. Cederò? Non lo so, ma vi terrò aggiornati.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al Sega Mega Drive (Mini e non), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.