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Hanno ucciso l’Uomo Ragno mentre ero in fila davanti al bagno

Diversamente dalle cover story versate alla nostalgia, agli anni Ottanta che non se ne esce vivi (e invece… ) e alle altre robe da vecchi, questa dedicata a Marco Esposto mi prende un po’ di traverso. Come ho già scritto altrove, quando si parla di supereroi americani, ne esco sempre piuttosto ignorante, e al limite mi salvo in corner con i pipponi mitologici.

Peccato che i pipponi superoi-dèi, qua su Outcast, me li sia già giocati ai tempi della Justice League & Friends, e mi viene difficile ricicciare gli stessi concetti in variante uomoragna: vuoi perché si tratterebbe di andare a caccia di fantomatici miti a otto zampe per poi magari scoprire che con Peter Parker e compagnia non ci azzeccano nulla. Vuoi perché, fino all’arrivo del film di Raimi del 2002, le mie frequentazioni con l’Arrampicamuri erano sostanzialmente ferme ai vecchi cartoni animati della Hanna-Barbera (dei quali vi ha parlato più approfonditamente Esposto) e a qualche viggì vintage (tipo quelli di cui vi ha parlato sempre Esposto).

Poi, qualche giorno fa, durante uno di quei momenti che gli alcolisti definiscono di lucidità, l’elefante è saltato fuori dalla stanza e mi ha fatto toc-toc sul coppino, come a dire: “Pirla, e io?”. Mi riferisco a questo elefante qua:


Hanno ucciso l'Uomo Ragno - inteso come pezzo, ma pure come album - è uscito nel febbraio del 1992. Quell’anno frequentavo ancora il liceo, giravo in bici ma stavo per scollinare in zona motoretta e passavo le giornate a giocare con l’Amiga o davanti alla TV, tra Twin Peaks e Beverly Hills 90210.

Anagraficamente non ero proprio in target con gli 883, che raccontavano storie di diciotto/ventenni con la moto o la macchina. Ciononostante, in quella fase iniziale e amorfa dei primi anni Novanta, quando i i R.E.M. e i Roxette si davano il cinque nelle compilation su cassettina a fianco di Ligabue, Carboni e Finardi, la verità è che pure noialtri ragazzini di paese eravamo piuttosto amorfi. Troppo indietro per avere dei gusti ben definiti ma già troppo avanti per le canzoncine, alla fine gli 883 ci calzavano bene.

E calzavano perché, anche se la macchina col deca ancora non c’era, d’inverno noialtri si passava i pomeriggi tra sale giochi e baretti, e nel weekend era tutta una rotazione tra cinema, pizza, festina e qualche accenno di discoteca se si riusciva a entrare, tanto per guardare le ragazze degli altri. In una qualunque di queste opzioni, uscire di casa da ottobre a marzo in zona Brianza voleva dire nebbia, freddo e tirate in notturne con la birra sullo stomaco. Ecco, quella nebbia e quel freddo lì, quelle serate fatte di feste, di menate e ragazze che non ci stavano, Max Pezzali e Mauro Repetto le hanno centrate in pieno - loro che erano di Pavia - e sono riusciti a metterle in musica con la schiettezza di un amico che ti racconta i fatti suoi al bar sotto casa.

Senza entrare nel merito del “mi piace” o mi “fa cagare” a livello musicale, se si tagliano i pezzi della band sotto il profilo narrativo è impossibile non accorgersi di quanto siano ben piazzati nel loro tempo. Personalmente, non sono mai entrato in sintonia col romanticismo spiccio di Come mai o col nostalgismo di Jolly Blue, ma ancora oggi brani come Non me la menare, S'inkazza e Weekend mi sembra quasi di vederli, tanto son veri.

In Nord sud ovest est c’è tutto lo Zeitgeist del periodo, la voglia di escapismo dei ragazzini di provincia che sognavano l’America con le Harley-Davidson, i giubbini in pelle e il deserto con i nativi americani (che durante gli anni Novanta, nell’immaginario collettivo, erano le figure di riferimento per la spiritualità spiccia). Il tormentone Hanno ucciso l’Uomo Ragno, all’epoca, venne addirittura associato da qualcuno alla lotta alla mafia, per via della faccenda brutta di Falcone, e nonostante vagheggi di baracci nel Bronx dove servono “whisky & margarita”, pare sia figlio di una cattiva digestione di Max: panino piccante al tabasco e minestrone della mamma.

La spiritualità indiana.

Se poi lo chiedete a me, il capolavoro narrativo della band resta Rotta x casa di Dio: chi non ha mai passato almeno una serata in macchina con gli amici “con le facce tese tutti incazzati neri, e con le pive nel sacco”, perso chissà dove nella nebbia alla ricerca di una fantomatica “festa con le tipe” o di un concerto? Oggi, ché abbiamo tutti lo smartphone in tasca, una roba del genere pare retrò quanto le chiacchierate in walkie-talkie dei ragazzetti di Stranger Things, eppure...

Poi, nel 1994 e all’apice del fresco successo, il fattaccio: gli 883 originali si sciolgono. Max Pezzali prenderà il nome della band e lo appiccicherà sopra a dei nuovi musicisti (tra cui Paola e Chiara), per poi abbracciare la carriera solista, mentre Mauro Repetto dirà addio ai riflettori dopo la breve parentesi di ZuccheroFilatoNero.

Anche oggi, dopo tanti anni, la separazione tra i due conserva elementi di fascino. La versione ufficiale racconta che Repetto, amico di Pezzali fin dai tempi del liceo, da un giorno all’altro decise di partire per gli Stati Uniti sulle tracce di una misteriosa modella, tale Brandy, di cui si era invaghito. La suggestione è curiosa, soprattutto perché sembra fatta apposta per aderire – seppur con ingenuità - all’immaginario della band, tuttavia le ragioni dello scazzo sono da cercare altrove.

Gli 883 così come li ricordo.

Fin dagli esordi liceali, il ruolo di Repetto era soprattutto quello di co-autore dei testi, mentre nelle esibizioni dal vivo - tutti se lo ricordano ancora – si limitava a ballare e a saltare. Pare che non sia mai stato a suo agio né con questo cliché, né tantomeno col successo improvviso, e che abbia preferito levare le tende quando la festa era ancora in corso. Oppure, chi lo sa, magari è stato fatto fuori; celebre la frase del padre: "Altro che Uomo-Ragno, tu hai ucciso la gallina dalle uova d'oro" (che brutta persona, questo padre).

Degli anni successivi agli 883, della vita di Repetto si conosce relativamente poco: pare abbia lavorato per qualche anno come animatore a Disneyland Parigi, per poi passare a un lavoro d’ufficio, che abbia sposato una designer e che, insieme, abbiano avuto dei figli. Ha tuttavia continuato a coltivare l’amore per lo spettacolo: nel 2012 ha scritto e messo in scena a Parigi la commedia The Personal Coach, mentre in tempi più recenti è apparso come ospite a qualche esibizione dell’ex compagno di band, per il quale è persino tornato a scrivere dei testi.

I ritrovati Max Pezzali e Mauro Repetto.

La storia di Repetto mi affascina, dicevo, sia per l’ombra di ambiguità che getta su una band apparentemente fondata sull’amicizia fraterna, ma soprattutto per le diramazioni narrative che suggerisce: in primis, quella del talento sprecato (o perlomeno dell’occasione). Segue la faccenda del compagno d'avventura divenuto ingombrante e, per finire, quella del ragazzo sensibile che non è riuscito a convivere col successo.

Quale sia la verità, del tutto a pregiudizio, mi figuro Max come il Ted Mosby della situazione, romantico e incline alla nostalgia, mentre vedo in Repetto l’elemento sovversivo della band, l’autore dei brani più polemici come Non me la menare o Sei uno sfigato. Il ragazzo tribolato che non ha voglia di andare a scuola e che ha finito per sciupare l’occasione della vita perché “non ci stava dentro”, ché lui voleva solo suonare a cazzo di cane in cantina, oh. O magari sbaglio, vai a sapere: in fondo gli 883 ho smesso di filarmeli presto, per passare al rock alternativo di Bluvertigo e Afterhours, ché faceva più figo.

Questo articolo fa parte dell'amichevole Cover Story di quartiere su Spider-Man, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.