Harry Potter, Il Signore degli Anelli e io
Correva l’Anno Domini 2001 e io, poco più che quindicenne, scoprii definitivamente quel genere che divenne il mio preferito sia nella letteratura che al cinema, poiché verso la fine di quell’anno uscirono in sala i capitoli d’esordio di due saghe per me più che seminali: ovviamente sto parlando dei fantasy più pop degli ultimi venticinque anni cinematografici: Harry Potter e Il Signore degli Anelli. Due serie di film che mi accompagnarono per tutta la mia tarda adolescenza, facendomi pure scoprire il mondo della lettura e di quanto la frase “eh ma il libro era meglio” avesse tanto senso quanto al tempo stesso fosse sbagliata.
Non mi vergogno di dire, e non voglio nemmeno nascondere che i libri scritti da J.K. Rowling li recuperai molto più avanti, a differenza di quelli di J.R.R. Tolkien, che lessi immediatamente dopo aver visto sul grande schermo La Compagnia Dell’Anello, e subito dopo continuai con Lo Hobbit e Il Silmarillion. Gli scritti dell’autore britannico mi rapirono immediatamente nonostante la prolissità sul lato descrittivo, tutti quei dettagli non potevano fare altro che reimmergermi nelle immagini che Peter Jackson fu capace di portare sul grande schermo, con un rispetto che difficilmente si riuscirà a riassaporare negli anni successivi, soprattutto quando riprese la cinepresa in mano portando al cinema, in maniera piuttosto discutibile, l’adattamento de Lo Hobbit, riuscendo nell’impresa di trasporre un libricino di trecento pagine in tre film da tre ore… Il risultato fu ottimo al box office, ma pessimo in quanto a qualità e salute dello stesso Jackson, colpito da un’ulcera fulminante durante le riprese, poiché dovette accollarsi tutto il lavoro dopo la fuga dal progetto da parte di Guillermo del Toro.
Ma non sono qui a parlare di questo, ma di cosa mi ha fatto amare le due saghe sopracitate e di quali scene me le hanno rese così iconiche, di quali momenti me le hanno rese così memorabili. Faccio una premessa, lo so, sto barando, ma anticipo già che non sarà solo uno il momento memorabile, anche perché parliamoci chiaro, se sto parlando di due storie, una lunga ben tre libri e l’altra sette, come faccio a scegliere solamente un episodio? La voglia di selezinarne una per libro, perciò dieci, è tanta, ma penso che alla fine ne sceglierò due per saga, cercando di trovare quel legame che tanto me le ha fatte amare. Ce la farò?
C’è una sottile linea rossa che lega le due saghe, e non è solo quello di un mondo magico che le coinvolge, ma il tema della vita e della morte e di soprattutto come il villain principale non sia capace di accettarla, temendola più di quanto tema i suoi nemici stessi. Entrambi i cattivi, Sauron da una parte, Voldemort dall’altra, arrivano addirittura a scindere la propria anima per cercare di vivere in eterno, trasferendone le parti in vari manufatti (chi in un semplice anello, chi in più oggetti denominati horcrux).
Ed è proprio su questo tema che ho provato i brividi più grandi, e quando rileggo quelle parti, o ne rivedo le trasposizioni cinematografiche, penso proprio che quelle scene che vi sto per raccontare siano l’apice delle due saghe.
L’ADDIO DI CEDRIC DIGGORY E IL RITORNO DI GANDALF
Come detto prima, uno dei temi che lega le due saghe è la morte e di come i protagonisti debbano affrontare la perdita dei compagni di viaggio e in un certo modo vede anche gli stessi tornare dall’aldilà.
Uno dei momenti rimasti più vividi nella mia testa della saga di Harry Potter, se non il più indelebile, è proprio subito dopo la morte di Cedric Diggory nel calice di fuoco, dove il cercatore di Tassorosso viene riportato esanime dallo stesso Harry al traguardo del torneo Tremaghi, e alla loro ricomparsa di fronte all’intera Hogwarts, Harry stesso annuncia il ritorno di Lord Voldermot gridando “E’ TORNATO, VOLDERMORT E’ TORNATO!”. La potenza di questo momento lo si può ritrovare soprattutto nella sua disperazione, nel suo comunicare la più nefasta delle notizie, insieme all’aver riportato indietro dal cimitero di Little Hangleton il corpo del rivale/amico senza vita, per poterlo riconsegnare alla propria famiglia come promesso durante lo scontro contro il Signore Oscuro.
Ecco, questo è il tipico esempio di come il film migliori il libro, dato che la versione scritta tende a rendere tutto molto più privato e nascosto, infatti Harry dà la notizia quasi sottovoce, smorzando la gravitas della situazione, ma al tempo stesso crea nel lettore una voglia di andare sempre più avanti, per conoscere le conseguenze di una rivelazione che per gli altri personaggi sarà inaspettata e sconvolgente. Perché scegliere un evento così negativo? Perché in fondo in fondo, un momento memorabile non deve essere obbligatoriamente un momento positivo, e questo rispetto a molti altri ha un impatto emotivo tale da totalizzarmi completamente.
E per quanto l’autrice dell’opera sia piuttosto discutibile per via delle sue attuali ideologie, è innegabile come questa scelta narrativa sia uno degli apici da lei mai creati, regalandoci un pathos che facilmente si sarebbe potuto perdere arrivando dal primo vero e proprio scontro tra Voldemort e Harry Potter, nonostante come sottolineato prima, la versione cinematografica è nettamente superiore a quella letteraria.
Dall’altro versante, invece, come preannunciato dal titolo di questo paragrafo, parlando de Il Signore degli Anelli, più nello specifico de Le due torri, troviamo forse la scena che più mi emoziona di tutte, quella del ritorno di Gandalf dopo lo scontro col Balrog che lo vide vincere ma contemporaneamente soccombere per il grande sforzo profuso.
Ormai la Compagnia dell’Anello, smembrata, constatava di soli tre elementi, un uomo, un elfo e un nano, alla ricerca di due altri compagni, i due hobbit che rispondono al nome di Merry e Pipino, rapiti da un gruppo di orchi e Uruk-hai comandati da Saruman il Bianco. Mentre Aragorn, Legolas e Gimli avventuratisi nella foresta di Fangorn alla ricerca dei due, s’imbatterono in una figura dalle bianche e luminose sembianze. E qui il bello. I tre, non riconoscendo immediatamente in Gandalf quella sagoma accecante, poiché la sua caratteristica principale di essere definito “il grigio pellegrino” era definitivamente perduta (vista la sua evoluzione in Cavaliere Bianco) lo attaccarono credendolo Saruman, venendo però sopraffatti dai poteri dello stregone.
Gli attacchi di Aragorn e Legolas vennero subito neutralizzati: al primo prese fuoco la spada, il secondo vide la sua freccia deviata senza troppo sforzo. Resi inermi, i tre si arresero, e allora Gandalf decise di rivelarsi. Tra lo stupore e la gioia realizzarono di avere di fronte l’amico creduto perso per sempre, o almeno, quello che loro pensavano fosse, poiché il ritorno dalla morte l'aveva reso un altro individuo, con una nuova identità e dei nuovi poteri, come lui stesso ammetterà. Infatti proprio questo cambiamento li trasse in inganno.
Ecco, questa scena, proprio al contrario di quella che vedeva Diggory morire nel calice di fuoco vede il suo trionfo proprio nel ritorno alla vita, e quella luce che Gandalf utilizza prima per presentarsi, per poi accecare e mettere alla prova i propri amici è proprio il picco emotivo che più mi ha coinvolto nell’intera trilogia. Sia Jackson che Tolkien riescono a renderla perfetta in entrambi i formati, molto furbescamente il regista abbagliando lo spettatore, molto sapientemente invece lo scrittore, con una narrativa misteriosa e intrigante.
Perché ho scelto queste scene? Perché la mia relazione con la morte è diventata molto particolare dopo la perdita di mio padre, avvenuta ormai diciassette anni fa, e da quel momento la mia sensibilità su quest’argomento ha totalmente preso un altro punto di vista. Un po’ come quando sento la frase “da quando sono genitore le scene coi bambini per me hanno acquistato un altro significato”, ecco, per me vale lo stesso quando si parla di accettazione del lutto. Emotivamente mi trovo sempre coinvolto in queste situazioni, riuscendo ad immedesimarmi nei protagonisti in meno di una frazione di secondo.
LA RIVINCITA DEGLI SFIGATI
Un altro momento memorabile nella saga del maghetto occhialuto rimane senza ombra di dubbio la scena in cui Neville Paciock (Longbottom, nelle nuove edizioni), ne I Doni della Morte riesce a uccidere Nagini, il serpente gigante che sempre ha seguito Voldemort. La bellezza della scena in sé non è solamente nell’essere riuscito a sconfiggere il rettile (distruggendo l’horcrux contenutovi) dopo aver estratto la spada di Godric Grifondoro dal Cappello parlante, ma di come lo stesso Neville riesca a riscattare quella sua figura sempre impacciata e bisognosa d’aiuto, divenendo così anche lui eroe di quella profezia che vedeva il Signore Oscuro soccombere contro colui che sarebbe nato al terminare del settimo mese, ovvero luglio (del 1980), da dei genitori che l’avrebbero sfidato già tre volte (e i suoi erano pur sempre degli auror, agenti magici in lotta contro le forze oscure).
Voldemort interpretò questa profezia potendo scegliere tra due neonati che rispondevano a tutte queste caratteristiche, Harry o Neville, ma mirò al primo piuttosto che al secondo per il semplice fatto che il figlio di James e Lily Potter era un mezzosangue, proprio come lui, trovando questa affinità un dettaglio molto più pericoloso dato che la profezia stessa diceva che sarebbe stato proprio lui stesso a designare il nascituro come suo eguale, decretando così la sua sconfitta. Tutta l’esistenza di Neville da quel momento in poi fu tragica tanto quella di Harry, dato che si vide sottrarre i genitori nella lotta contro l’Erede di Serpeverde, non in maniera fisica dato che non vennero uccisi, ma le torture inflitte dai mangiamorte li privarono della loro sanità mentale distruggendo così la famiglia Paciock. Questa situazione portò così il povero bambino a crescere con la nonna, una donna sicura e dal forte animo, ma ciò non bastò per forgiare il suo carattere, sempre remissivo e insicuro.
E quale migliore rivincita poteva avere il nostro se non rivelarsi decisivo nella sconfitta di Colui che non deve essere nominato, riuscendo a mozzare la testa di Nagini con la spada di Godric Grifondoro? Ok, a conti fatti la profezia non si riferiva più a lui una volta che Voldemort fece la scelta tra i due bambini, ma al tempo stesso chiude un cerchio, perché il destino predetto in questo caso non può essere modificato, ma solamente vissuto e compiuto e Neville, con quel gesto eroico, diventa un tassello fondamentale della storia.
Tornando invece alla Trilogia dell’Anello, uno dei momenti più epici non è ahimè contenuto nella trasposizione cinematografica, ma occupa gran parte del finale della versione cartacea de Il ritorno del re, ovvero la rivolta hobbit per riconquistare la Contea ormai soggiogata da Saruman, insediatosi dopo la sconfitta ad Isengard. Questa breve storia vede il gruppo di mezzuomini di ritorno nella loro terra natale dopo la distruzione dell’Unico Anello, ma una volta varcato il confine non troveranno l’Hobbiville lasciata poco più di sei mesi prima, ma un paese completamente devastato e ridotto in schiavitù. Qui allora ebbe luogo la Battaglia di Lungacque, dove Frodo, Sam, Merry e Pipino riuscirono a convincere e radunare un esercito di oltre trecento hobbit, e grazie alla loro esperienza maturata in quel di Gondor escogitarono un operazione militare a sorpresa, capace di avere la meglio su una banda di uomini al soldo di Saruman, detentori di un’evidente supremazia fisica in un conflitto diretto.
Il bello di questa storia non è solo nelle singole azioni compiute, ma nel risultato e di come questi piccoli ometti, nonostante furono tra i responsabili della liberazione della Terra di Mezzo da Sauron, dovettero rimettersi in gioco per liberare anche un posto sconosciuto ai più come la Contea, dimostrando come il viaggio intrapreso mesi prima li avesse veramente cambiati riuscendo a smuovere una popolazione che mai era stata conosciuta come intraprendente o battagliera. Oltretutto questa battaglia, conclusasi con la vittoria degli hobbit, vide anche la fine di Saruman (ormai privo dei suoi poteri di Stregone Bianco) per mano di Grima Vermilinguo, l’ex consigliere di Re Theoden di Rohan, dopo un diverbio scatenatosi durante la sua cacciata da Casa Baggins. La tipica ciliegina sulla torta. Un vero peccato che Jackson abbia escluso tutto ciò dal suo film, ma giustamente avrebbe allungato troppo il brodo; unica cosa presente di questi eventi (nella versione estesa de Il ritorno del re) è la rielaborazione della morte di Saruman per mano di Vermilinguo, ambientata invece durante la caduta di Isengard sulla cima della torre di Orthanc, con una scena piuttosto cruda conclusasi con l'impalamento del vecchio stregone.
Ecco, ho scelto questi due esempi proprio perché mi ci sono sempre trovato; storie dove degli underdog riescono a sovvertire le previsioni diventando gli eroi del giorno. Non che io sia mai stato un eroe, anzi, manco quando giocavo a pallacanestro mi capitò di fare un canestro decisivo, però facevo parte delle riserve, fisso in panchina, forse per questo ho una gran simpatia nei confronti degli underdog.. Questa rivincita è proprio il momento in cui mi è più facile immedesimarmi, perché è proprio la semplicità dei protagonisti a trasmettermi grandissime emozioni, dandomi una carica che difficilmente un personaggio super figo potrebbe comunicarmi.
TIRANDO LE SOMME
Questi alla fine sono quattro tra i miei episodi preferiti, quelli che più mi hanno emozionato, scelti in maniera totalmente arbitraria. Come accennato molto più sopra avrei voluto scrivere addirittura due articoli, uno per saga, scegliendo un singolo episodio per ogni film/libro per quanto io le abbia amate, ma alla fine ho preferito optare per questa soluzione sia per non tediare chi mai leggerà questo mio pippone sia per non sminuire quelle che poi ho ritenuto essere le più impattanti per me e per la mia crescita personale.
Grazie per l’attenzione e alla prossima.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai "Momenti memorabili", che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.