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I cinque minuti di Hope: The Other Side of the Adventure

Cito da Wikipedia: "MacGuffin (a volte McGuffin) è un termine coniato dal celebre regista Alfred Hitchcock; con questo vocabolo si identifica il mezzo attraverso il quale si fornisce dinamicità a una trama. Il MacGuffin è un qualcosa che ha un'importanza cruciale, attorno al quale si crea enfasi e si svolge l'azione ma che non possiede un vero significato per lo spettatore." Il MacGuffin videoludico per eccellenza è senza dubbio la principessa. Poco importa se Peach, Daisy o chicchessia: l'importante è che metta in moto l'eroe di turno e ci permetta di saltare su piattaforme e nemici assortiti. A ben pensarci, è anche vero che, presi come siamo tra un salto millimetrico e una stella da raggiungere, in fin dei conti della principessa ci interessa poco. Per noi non ha un vero e proprio significato, a parte l'essere una sorta di trofeo che testimonia a imperitura memoria l'abbattimento del boss finale, il vero motivo per cui abbiamo cominciato a giocare. La principessa è un orpello della trama ad uso e consumo del protagonista della stessa, al videogiocatore interessa la sfida, poiché lo gratifica.

Come la mettiamo, però, quando il gioco non ci mette nei panni dell'eroe, preferendo per noi  quelli della damigella in pericolo? È questo il caso di Hope: The Other Side of the Adventure, titolo indipendente sviluppato da Mr. Roboto, duo formato dal designer e programmatore Ricardo Acosta e dal composer Jonathan Hall, disponibile gratuitamente su dispositivi Android, iOS e via web come applicazione Flash.

Appena dopo il fatidico rapimento della Principessa, infatti, Hope preferisce mettere da parte l'avventura dell'infaticabile eroe per focalizzare l'attenzione sulla prigionia della damigella, sulle sue angosce e sulla sua attesa del principe. Invece che saltellare e dimenare la spada contro i mostri lungo i classici e stereotipati scenari da platform, ci ritroveremo rinchiusi con la Principessa in una stanza della torre del nostro aguzzino, il Duca, incapaci di fare quasiasi cosa che non sia piangere e sospirare, mentre vaghiamo senza meta nella claustrofobica camera.

Ignara di quello che succede nel mondo al di fuori della sua prigione, disperatamente aggrappata alla speranza che il suo cavaliere venga finalmente a salvarla, la bionda MacGuffin vivrà l’attesa cercando di dimenticare le angherie subite dal Duca, cercando conforto nel suo passato nel tentativo di rimanere forte e non cadere in una spirale senza ritorno. E noi vivremo l’attesa con lei: quello che rende Hope un’esperienza da provare, infatti, sta nella sua fruizione.

Piccole sessioni da cinque minuti, alla fine delle quali ci viene detto di tornare dopo ventiquattro ore, in modo da vivere l’attesa parallelamente a quanto succede alla Principessa che attende il suo cavaliere, ignara che questo stia procedendo lungo i sei stage che, di norma, costituirebbero l’avventura del gioco. In Hope, i sei stage si trasformano infatti in sei giorni in cui, con le nostre “visite” alla torre, apprenderemo attoniti le bruttezze della prigionia che nessun Super Mario ha mai avuto il coraggio di raccontarci, mentre vengono narrate da una Principessa che, col passare dei giorni, ci mostra i segni di una violenza tanto fisica quanto psicologica.

Hope è un’esperienza brillante quanto brutale, che potrebbe facilmente risultare come il proverbiale pugno nello stomaco per i fruitori più sensibili grazie alla sua potenza espressiva generale, ottenuta con una direzione artistica capace di azzeccare in toto componente visiva, sonora e recitativa. Senza contare che, oltre alla sua natura sperimentale e alla volontà di osare, Hope si prende anche il lusso di ironizzare e farci riflettere sul mondo dei videogiochi, sulla deriva free to play e, tutto sommato, sulla moralità in generale. Un esperimento indubbiamente riuscito, quindi, e assolutamente meritevole dei vostri cinque minuti al giorno, magari alla sera, al buio e con le cuffie, per godere al meglio di ogni dettaglio e ogni parola (rigorosamente in inglese brit) della Principessa, in modo da comprendere al meglio, qualora ce ne fosse il bisogno, l’importanza di una speranza.