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Post Mortem #46 - Horizon: Zero Dawn e l’eredità di Killzone

Post Mortem è una rubrica in cui vi raccontiamo le considerazioni a posteriori sull’esperienza legata alla lavorazione di questo o quel videogioco.

Visto l’eccezionale successo di critica e pubblico ottenuto da Horizon: Zero Dawn, c’era da aspettarsi che la GDC 2018 fosse costellata di talk e conferenze dedicate al gioco di Guerrilla Games. E infatti erano davvero tante (ben nove!), alcune di carattere molto tecnico, altre ben più accessibili a comuni mortali. Fra queste, due hanno stuzzicato il mio appetito: la prima era un classico post mortem, la seconda una più specifica riflessione sul design di quest e livelli. Come è nato, quindi, il grande successo di Aloy e di Horizon: Zero Dawn?

Le primissime concept art per Horizon: Zero Dawn.

Ne ha parlato a lungo Eric Boltjes, lead game designer a Guerrilla fin dai tempi del primo Killzone, non nascondendo le tante problematiche che sono emerse dal playtesting del gioco nel corso dei molti anni di sviluppo. Per quanto il concept fosse in giro fin dal lontano 2001, ci son voluti dieci anni perché un piccolo team di designer, artisti e programmatori cominciasse finalmente a lavorarci attivamente. Fin dal principio, erano ben chiari i tre i pilastri fondamentali attorno ai quali avvolgere le fitte trame del gameplay e dell’ambientazione: imponenti lande selvagge in cui immergersi, macchine maestose da abbattere e domare, tribù e culture interessanti con cui interagire. La scelta di rendere il gioco un open world è stata quindi solo una naturale conseguenza di queste premesse, essendo, secondo gli sviluppatori, l’unica formula videoludica in grado di traslare tanta ambizione in un prodotto coeso, completo e divertente. Guardando i giochi sviluppati da Guerrilla in passato, è semplice capire quale sia stato il loro problema più grande fin dal principio: la serie dei Killzone è nota per la sua grande linearità e tutti gli strumenti di sviluppo a loro disposizione all’epoca erano chiaramente inadatti a un titolo dall’ampio respiro come Horizon Zero Dawn. Ciò nonostante, Boltjes racconta che fin da subito hanno cercato di metter su un pur primitivo motore grafico in grado di gestire ambientazioni ampie, in modo da poter giocare e testare in prima persona le meccaniche che andavano a profilarsi in quei mesi di pre-produzione. Ad esempio, una delle prime idee che hanno avuto è stata la possibilità, per il giocatore, di smontare e indebolire i robosauri del mondo di gioco, colpendoli in particolari aree di vulnerabilità. Qualche centinaia di righe di codice più tardi, avevano un prototipo funzionante di questa meccanica, che potete vedere nel video qui sotto (che parte già al momento corretto del talk):

Per quanto il prototipo fosse funzionante, c’erano ancora tanti problemi da risolvere. I pezzi staccati dai robosauri come devono comportarsi? Devono scomparire o continuare ad esistere e subire le leggi della fisica, magari danneggiando anche il giocatore? Grazie al prototipo, si sono potuti immediatamente rendere conto che la possibilità di essere uccisi da un pezzo volante non era particolarmente divertente, ad esempio. Questo continuo e veloce ciclo di prototipazione e testing delle meccaniche ha finito per essere la colonna portante dell’intero lavoro di sviluppo. Vista la totale inesperienza in mondi open world, questo processo di raffinazione per iterazione è toccato anche, tra le altre cose, ad ambientazioni, architetture e controlli. In un altro esempio, Boltjes ha mostrato che aspetto aveva una delle città del gioco nelle fasi embrionali di sviluppo (anche in questo caso il video dovrebbe iniziare al momento giusto del talk):

Grazie al prototipo, hanno potuto constatare che la città era molto difficile da attraversare e che aveva un layout confuso, cosa che li ha spinti a cercare soluzioni migliori. Notate anche come Aloy abbia una cavalcatura “organica” e come siano presenti animali robotici domati all’interno della città, ma su questo torneremo più tardi. Rendere il tutto giocabile fin dall’inizio è stata una scelta coraggiosa e costosa, che però ha dato i suoi frutti, permettendo agli sviluppatori di aggiustare il tiro in tantissime situazioni già in fase embrionale, ovvero quando è più facile e meno costoso.

In queste fasi, il gioco era meccanicamente a un buon livello ma risultava ancora molto scollato, con isole di gameplay mal collegate, che non formavano ancora un gioco vero e proprio. Ciò che ha fatto da collante in questa marea di meccaniche e sistemi è stata la narrazione, introdotta solo in fase relativamente avanzata di realizzazione. Secondo Boltjes, questa scelta poco ortodossa si è rivelata paradossalmente vincente, permettendogli di concentrarsi per lungo tempo su ciò che avrebbe reso davvero divertente il gioco, prima di iniettarvi alcun tipo di narrazione e sovrastruttura. Allo stesso tempo, la narrazione è stato il collante che ha colmato e corretto gran parte delle lacune che si erano palesate in fase di preproduzione. Ricordate che Aloy, originariamente, poteva cavalcare cavalli “organici”? Ecco, giustamente, una fra le prime decisioni prese dai narrative designer è stata quella di farle cavalcare i robosauri! Perché dover introdurre goffamente i cavalli, quando puoi usare uno tra i punti forti dell’ambientazione per muoverti nella mappa? E allo stesso modo, una volta definiti il carattere e la personalità di Aloy, tutte le abilità e tutto l’equipaggiamento disponibile sono venuti fuori abbastanza naturalmente, dopo mesi passati ad arrovellarsi e sperimentare. Parafrasando le parole di Boltjes “Avere un contesto aiuta in tutto quello che fai, ma riuscire a sperimentare con molte possibilità prima dell’introduzione di un contesto vero e proprio ci ha aiutato a non rimanere ingabbiati.”

Boltjes guarda soddisfatto la sua creazione: un enorme dinosauro meccanico fatto di LEGO.

Sciolti tutti i dubbi iniziali ed entrati finalmente nella fase di produzione di Horizon: Zero Dawn, decidono di cominciare lo sviluppo dall’inizio del gioco, vista la sua importanza, ma si imbattono subito in una serie di problematiche caratteristiche degli open world, che non hanno dovuto mai affrontare in giochi ben più lineari come, quelli della saga di Killzone. La meccanica di lancio dei sassi, utile per distrarre le macchine e farsi strada senza farsi scoprire, aveva inizialmente uno spazio molto più ampio, con un tutorial più lungo e completo. Ma col tempo si son resi conto che, andando avanti nel gioco, il suo peso diventava quasi insignificante all’interno dell’economia del gameplay, visto che Aloy poteva evitare gran parte degli incontri semplicemente aggirandoli nell’ampia mappa. Inoltre nelle fasi ancora più avanzate, fra upgrade ed equipaggiamento migliore, Aloy diventava una macchina da guerra e la possibilità di un approccio furtivo era sempre meno conveniente. Di conseguenza, hanno ridotto molto il tempo dedicato alle meccaniche di distrazione nel tutorial. Allo stesso modo, il focus, quella sorta di “Detective Mode” che permette di evidenziare oggetti interattivi e fornire informazioni sulle varie parti dei robosauri, è il risultato di lunghe sessioni di playtesting, che mostravano come gran parte dei giocatori non avesse informazioni a sufficienza circa le proprie possibilità tattiche in ogni situazione. Il terzo esempio, invece, riguarda i nemici umani, che sembravano fin troppo semplici e tediosi da affrontare rispetto a degli enormi dinosauri robotici da smontare goduriosamente pezzo per pezzo. Per questa ragione, gli incontri con avversari umani, in Horizon: Zero Dawn, avvengono quasi sempre in gruppo, come nel caso delle roccaforti di banditi. In questo modo, è stato possibile rendere interessanti le schermaglie attraverso il level design, piuttosto che attraverso il combattimento stesso. Il non essere riusciti a rendere stimolanti questi incontri quanto avrebbero voluto rimane uno dei grandi rimpianti di Boltjes circa il progetto.

Il playtesting si è fatto ancora più intenso nelle fasi finali, quando ormai Horizon Zero Dawn era giocabile dall’inizio alla fine. Pare che i primi verdetti da parte dei tester siano stati massacranti, costringendoli a un lungo e complesso lavoro di raffinazione delle meccaniche, per renderle più divertenti ed accessibili possibile. Ma nonostante tutto questo sforzo, ci sono aspetti che non sono riusciti a sistemare nella versione finale. Tra tutti, il sistema di economia del gioco, in particolare quello delle componenti per upgrade, rimane ancora piuttosto macchinoso e fumoso, con nomi poco chiari dati ai materiali in nome di una maggiore coesione narrativa. Certo, per un selvaggio post-apocalittico, una lente è un occhio e una batteria diventa una semplice bobina, ma per i giocatori, pare che questa nomeclatura abbia solo confuso ancor più le idee. Per cercare di rimediare a questo problema, hanno introdotto il sistema dei “Trader Jobs”: è possibile richiedere un particolare materiale a un mercante, a patto che si completi una piccola quest generata sul momento. Ma questo sistema si è rivelato una pezza messa lì alla bell’e meglio, che ben pochi giocatori hanno usato.

Boltjes guarda, molto meno soddisfatto, il suo sistema di upgrade un po’ così così.

Insomma, tutto il bello di Horizon Zero Dawn è venuto fuori da un lento ma efficace ciclo di integrazione di idee e meccaniche, continuamente implementate e testate prima che si insediassero troppo a fondo nell’economia di gioco, tanto da diventare insostituibili. Un processo di sviluppo flessibile e adattabile, proprio come il carattere di Aloy.

Oltre al talk di Boltjes, ho assistito anche a una seconda conferenza di Guerrilla. Stavolta, a parlare era Blake Rebouche, senior quest designer di Horizon: Zero Dawn, che precedentemente aveva lavorato a The Elder Scroll Online e Star Wars: The Old Republic, entrambi titoli multiplayer.

Rebouche ha parlato delle sue difficoltà nel conciliare gli aspetti RPG e action all’interno delle quest di gioco, che ha definito rispettivamente micro level design e macro level design. Quest’ultimo è la gestione del ritmo del livello nella sua complessità, ovvero di come momenti di azione, narrazione ed esplorazione si debbano alternare all’interno delle diverse stanze di un livello o di diverse aree di un open world. Gli RPG fanno un uso consistente di questo tipo di approccio, visibile già nei classici Baldur’s Gate. Il micro level design si occupa, invece, di come questi momenti diversi si debbano alternare all’interno di una singola stanza o area, ed è caratteristico di titoli più votati all’azione. Implementare una sana varietà di finalità all’interno di un livello è stato semplice per Rebouche, che con gli RPG aveva lavorato a lungo in passato, ma data la duplice natura di Horizon: Zero Dawn, a cavallo fra action e RPG, si è trovato in grande difficoltà nel rendere interessanti le singole stanze. La pesante eredità di Killzone, che nel caso del game design aveva creato non pochi grattacapi agli sviluppatori, qui si è rivelata molto utile per infondere varietà e divertimento nei vari ambienti di gioco. Rebouche ha raccontato di come sia andato a rispolverare le vecchie linee guida per il level design scritte dai suoi colleghi durante la creazione dei titoli della serie di Killzone e di come abbia deciso di applicarle al level design di Horizon: Zero Dawn a partire da un ambiente che proprio non lo soddisfaceva. Le regole erano chiare e le aveva infrante tutte in quel particolare caso:

  • entrate, uscite e percorsi alternativi o di fiancheggiamento devono essere sempre chiari e leggibili;

  • il giocatore deve sapere dove sono i nemici;

  • deve essere chiaro cosa può essere usato come copertura e cosa no;

  • usare l’illuminazione per guidare il giocatore nei punti importanti.

Gli è quindi bastato applicare queste pur semplici linee guida per migliorare drasticamente la godibilità del livello. Non tutto il retaggio di Killzone è stato dannoso, quindi. Piccola curiosità: all’ingresso di moltissime aree coperte in Horizon: Zero Dawn, è presente una scala a doppia rampa al posto di una più semplice a rampa singola. In questo modo, si forza il giocatore a guardarsi intorno mentre si scendono le scale, dandogli inconsapevolmente una migliore coscienza dell’area che ha intorno.

Scomposizione di un livello di Killzone nelle sue parti esplorative, combattive e narrative.

In conclusione, nonostante la difficile conciliazione dei mondi di action e RPG, Rebouche ritiene che i due aspetti non siano in contrapposizione così aspra: “Le quest in un RPG dovrebbero avere un significato, mentre in un action dovrebbero avere esplosioni!”. Dare un significato a quelle esplosioni non è sempre un lavoro semplice ma, dato l’ottimo risultato finale, non posso lamentarmi.

Se volete approfondire, potete leggere della creazione di Horizon: Zero Dawn anche a questo indirizzo, mentre a quest’altro indirizzo trovate un’intervista ad Angie Smets di Guerrilla Games e a quest’altro indirizzo ancora c’è un Post Mortem incentrato sulla narrazione del gioco. Poi basta, promesso.