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Hotel Dusk: Room 215, un noir sentimentale | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Sono i giorni che precedono il Natale del ’79. L’odore di sigaretta impregna i vestiti buttati sulla sedia. Rende l’aria spessa, presente, tangibile, sottolinea quella sensazione di fatica e disillusione che si accumula addosso dopo una vita vissuta in polizia per poi mollare tutto. Un proiettile che lascia la canna della pistola di ordinanza, un cadavere mai più riemerso dall’Hudson, una carriera in fumo, bruciata dal tradimento di chi chiamavi “partner”. Ricordi ossessivi, la mente bloccata in quei secondi concitati. “Perché l’hai fatto, Bradley?”. L’unico sollievo riempie a malapena un bicchiere sbeccato, il tintinnio del ghiaccio come i rintocchi di una campana tibetana che dà inizio a una meditazione alcolica, gli occhi riflessi in quel liquido ambrato, distorti, mentre il profumo pungente del bourbon pizzica le narici, sprofondando lentamente nella notte.

Giorno nuovo, testa pesante, nuova meta. Kyle Hyde, ex-piedipiatti di New York oggi venditore cinico e scontroso presso la Red Crown ha scelto questo lavoro proprio per girare gli Stati Uniti, non per piacere ma nella speranza di incrociare la strada dell’amico che lo tradì durante un’operazione sotto copertura, quel Bradley che tutti credono morto tranne Hyde, convinto di poter ancora trovare risposte a quelle domande che lo tormentano da quella dannata mattina di tre anni prima. L’Hotel Dusk doveva essere un’altra tappa a vuoto, ma gli hotel sono entità strane, sembrano trattenere un po’ dell’essenza dei loro ospiti, una loro traccia, che sia una firma sul registro, un oggetto dimenticato, un ricordo, attraendo altre persone in cerca di una connessione, un segno. E quella notte l’Hotel Dusk aveva deciso di liberarsi di qualche mistero, dare finalmente pace a chi stava bruciando lentamente come un bastoncino d’incenso.

Un fascino tanto artificiale e fittizio quanto irresistibile, quello di una sceneggiatura-puzzle ritagliata in piccole tessere, ogni personaggio incastrato ad un altro per comporre una narrazione corale che non si limita a ricalcare la tipica fauna noir, dallo sbirro al criminale fino alla femme fatale, ma ne crea una versione più romantica, intima, sfumata. La traduzione del titolo originale giapponese suona come “La stanza dei desideri: il ricordo dell’angelo” e racconta già benissimo l’umore e l’atmosfera che si percepisce camminando in quei corridoi malinconici dalle texture fatiscenti, che quindici anni dopo fanno ancora più a cazzotti con personaggi animati e disegnati splendidamente. Una sensazione di attesa soprattutto, aspettative, forse semplici illusioni, acuite dalla vicinanza del Natale ma ammorbidite dalle note di jazz che profumano costantemente l’ambiente. Un ex-delinquente sfuggito alla malavita, uno scrittore tormentato, la madre anziana che torna ogni dieci anni in quell’hotel per incontrare il figlio, una bimba in viaggio con suo papà, un giovane scapestrato in fuga dalla famiglia. A tutti loro manca un pezzo, persone incomplete lontane dai propri cari, deliziosamente imperfette, egoiste, tristi eppure piacevoli da conoscere, segnate da una vita intensa, riunite sotto un tetto che, naturalmente, nasconde più di quanto possa sembrare.

E il gameplay che Cing riuscì a creare per veicolare la vicenda è ancora oggi un manifesto di come la “touch generation” di Nintendo DS, nelle mani giuste, abbia dato vita ad opere uniche e irripetibili. Un’evoluzione del punta e clicca che si mescola alla visual novel e sfrutta ogni possibile caratteristica dell’eclettica portatile Nintendo per creare interazioni totalmente inaspettate, per quanto estremamente semplici all’atto pratico. Già il solo dover tenere la console in verticale, aperta a libro, suggerisce una personalità decisa dal primo sguardo. Ci sono degli enigmi in particolare che sono dei veri e propri colpi di genio e creatività; come fare a rovesciare una scatola nello schermo superiore in quello inferiore? Semplice, chiudendo fisicamente il DS e riaprendolo. Oppure, ad un certo punto, dopo essersi gustato un’ottima cena, Kyle ha la curiosità di scoprire a chi appartiene una penna che ha trovato a terra, al ristorante. Una penna vissuta, rovinata, con una dedica incisa ma ormai illeggibile. Trova un gessetto, lo sfrega sull’incisione e poi, avvicinando le labbra al microfono, soffia via delicatamente la polvere in eccesso. Bellezza. Ma quello che all’epoca mi fece realmente impazzire fu l’enigma del contatore elettrico, con la necessità di attivare contemporaneamente due interruttori posti ai lati del touch screen, che tutti sappiamo essere resistivo e assolutamente non multi-touch. Eppure, cercando di alzare insieme i due interruttori, TAC!, luce fu, sfruttando proprio l’interferenza che andava a crearsi provando a toccare due punti nello stesso momento. Sono gimmick, certo, ma più che mai qui è il gesto (anche letteralmente) che conta e racconta una cura per il dettaglio e un amore verso la macchina che è semplicemente da lodare, proponendo soluzioni estremamente “fisiche” a certi problemi.

Per assurdo il suo punto debole sono gli interrogatori, che dovrebbero essere il fiore all’occhiello di un ex-detective. Fin troppo rigidi e capaci di portare al game over se falliti, salvati sicuramente dalla qualità della scrittura però, con un Hyde implacabile, ruvido e schietto oltre il dovuto, spesso allo scontro col proprio interlocutore, certo, ma anche capace di momenti di sincera gentilezza, soprattutto nei confronti di Melissa, una simpatica e capricciosa bimba in conflitto col padre e in cerca della madre, e della signora Parker, con cui si intrattiene piacevolmente varie volte nel corso della serata. Tanto nel gameplay quanto nei dialoghi il gioco tende a stimolare una gran voglia di ficcare il naso ovunque e seguire le tracce lasciate dagli sviluppatori, sgattaiolando con circospezione nell’ufficio del proprietario in cerca di indizi o chiacchierando più o meno amabilmente con gli altri ospiti. Si cammina, ci si ferma a riflettere, si osserva, annotando le cose più curiose sul taccuino e ascoltando una colonna sonora elegantissima, splendida nonostante i chip audio del DS. Insomma, si vive uno spazio che diventa sempre più familiare, ed è in questo momento che viene plasmata quell’accogliente sensazione di hotel che è la vera caratteristica vincente dell’opera. Si segue la routine della struttura, i suoi orari, l’apertura del ristorante e del bar, incrociando spesso la governante, l’adorabile Rosa, e scoprendo piano piano tutti gli ambienti di questo luogo perso nel cuore dell’America, sospeso, la sua storia e i segreti nascosti dietro uno strato di cartongesso. Ci sono momenti di tensione e sequenze concitate (a livello narrativo si intende, dato che il gameplay non prevede “azione” in senso stretto) come in ogni noir che si rispetti, ma in generale è tutto molto soffuso, rilassante, come filtrato attraverso due dita di quel bourbon che Hyde non rifiuta mai. L’ansia sostituita da quell’elettricità che muove i neuroni intenti a collegare fatti, personaggi, crimini, cercando di anticipare la sceneggiatura e il suo scorrimento lineare, letterario. Una vicenda torbida, che lega con un filo rosso opere d’arte inestimabili, tradimenti, spietate organizzazioni criminali ed efferati omicidi, lasciandoli però sullo sfondo, velati, preferendo parlare dei sentimenti roventi che questi crimini si lasciano dietro una volta raffreddati.

Cold case che Cing non potrà più riaprire, fallita per bancarotta nel 2010, proprio dopo la pubblicazione di Last Window: Il Segreto di Cape West, seconda e ultima apparizione di Hyde prima di far perdere le proprie tracce, totalmente nel suo stile. Del team giapponese rimangono però anche i due Another Code, uno per DS e l’altro per Wii, sempre nel segno dell’innovazione e incentrati sul tema del ricordo, e il recente Chase: Unsolved Case Investigation Division per 3DS, sviluppato da ex-Cing approdati in Arc System Works (tra cui il director Taisuke Kanasaki), per quello che alla fine si è rivelato essere un interessante quanto incompiuto prologo a qualcosa che probabilmente non avrà mai un seguito, dato lo scarso riscontro commerciale. Sta a noi ricordare e tramandare il mistero della stanza 215, quella soprannominata “Desiderio”, celebrando un vero cult dell’investigazione videoludica.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai detective, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.