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Il mio West

Nonostante sia da parecchi anni un utente Apple (lato computer), non credo di aver mai avuto molti punti in comune con Steve Jobs: mangio volentieri la carne, preferisco i Beatles a Bob Dylan, non porto gli occhiali e, beh, non ho ancora tirato su un’azienda di successo. Ma almeno una cosa col fondatore di Apple l’azzecco, ossia il campo di distorsione della realtà. Quella particolare caratteristica che pare permettesse a Jobs di influenzare le persone che gli stavano attorno, convincendole di cose che, fino a un secondo prima, ritenevano impossibili.

Ecco, modestamente, pure io sono dotato di un potere simile, con la differenza che, anziché manipolare la percezione della realtà altrui, influenzo la mia.

Questo personale campo di distorsione mi ha procurato per anni la ferma convinzione che il vecchio West, almeno tra i ragazzi della mia generazione, fosse roba superata, passé. Amata dai giovani degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, sì. Ma distante da noialtre larve di yuppie venute su a robottoni, fucili protonici e spade laser. Tex mi pareva una lettura da anziani alla pari di Diabolik (!), e ai revolver giocattolo preferivo di gran lunga Transformers, Masters e Playmobil. Anche in quest’ultimo caso: piuttosto che fortino, guardie.

E se non guardie, pompieri.

In realtà, fuori dal mio campo di distorsione le cose erano diverse, grazie al cielo. Di western ne uscivano ancora, anche se magari meno di un tempo. A volte giravano a viso aperto, altre si nascondevano sotto qualche palandrana spaziale o nei giubbini di pelle post-apocalittici. Tra l’altro, si trattava giusto di resistere un poco, ché i primi Novanta avrebbero consegnato al mondo Balla coi lupi e Gli spietati, tra le altre cose.

Al di là delle balle che mi raccontavo, il problema col genere era ovviamente personale: ho sempre provato un odio profondo nei confronti della vita all’aria aperta. E col fatto che vivevo (e vivo) in una città incastrata tra lago e montagne, la natura me la trovavo (e me la trovo) sempre dietro l’angolo. Da bambino, venivo trascinato controvoglia lungo pallosissime escursioni in montagna. Una volta, i miei decisero di portarmi persino al maneggio: non ricordo con precisione come andarono le cose, se caddi o che altro, ma da allora nutro un’irrazionale paura nei confronti di cavalli e mucche.

Su tutto, però, a impicciare la mia storia col West sono gli spazi ampi e sconfinati della frontiera, ché mi mettono ansia in via di una qualche forma di horror vacui. Pure se incrocio un canyon o una prateria in qualche album fotografico di viaggiare, per dire, fatico a immaginarmi volentieri sul posto.

Poi, vabbè, detesto dormire sotto le stelle, odio picnic e bivacchi e, in generale, non amo mangiare senza le gambe sotto a un tavolo e un tetto sopra la testa. Più o meno come Emily Gilmore, che era solita ospitare i suoi barbecue in sala da pranzo.

È anche vero che non vivo certo in una metropoli, né pretendo di farlo. Non impazzisco per la folla, eppure trovo concilianti la presenza di esseri umani e le tracce di civiltà. Sento il bisogno di limiti architettonici. In fondo, i limiti sono una delle ragioni che mi fanno apprezzare tanto i videogiochi: spazi artificiali governati da sistemi di regole che appiattiscono la complessità del mondo reale.

I videogiochi mi danno un senso di controllo, proprio come gli spazi limitati e protetti. Prima dei videogiochi, stando a quel che racconta mia madre, pare passassi intere giornate nascosto in un fortino ricavato da due divani e una coperta, o all’interno di scatoloni.

Quindi, ricapitolando, le mie difficoltà col West sono principalmente ambientali. Poi, per carità, crescendo, le cose sono un po’ migliorate, e ho finito con l’apprezzare moltissimo film di genere come Gli spietati, di Eastwood, e più recentemente The Revenant. Soprattutto, ho recuperato i western diretti da Sergio Leone, ché con le sue geometrie chiuse, i tagli e l’epica classica, mi ha semplificato un po’ le cose. Ah, ho pure visitato il Villaggio West di Gardaland e cenato un paio di volte in un Old Wild West, se vale.

Detto questo, in via dei miei limiti, sono sempre stato un po’ più a mio agio con quei film, quelle serie TV o quei cartoni animati che prendono il western e lo pucciano in qualche altro genere, o che partono a cavallo dalla frontiera per poi andare a parare da tutt’altra parte. La classica zolletta di zucchero per nascondere il sapore della medicina.

Un buon esempio di questi cocktail è Scappo dalla città - La vita, l'amore e le vacche (abominevole titolazione italiana di City Slickers), uscito nel 1991 e diretto da Ron Underwood, già regista di Tremors. Il film mi si addice alla perfezione, dal momento che racconta di tre cittadini di mezza età in cerca di emozioni – interpretati da Billy Crystal, Daniel Stern e dal compianto Bruno Kirby – che si ritrovano loro malgrado a scortare una mandria di mucche. Nel film compare anche Jack Palance nei panni di Curly Washburn, cowboy d’altri tempi che tenta di addestrare i ragazzi alle ruvidità del bivacco: più o meno come la guida che un paio di anni fa tentò di spiegarmi i sentieri di un parco naturale della Garfagnana (finii col perdermi).

In questa categoria ibrida, infilo anche Wild Wild West, del 1999, ispirato all’omonima serie TV degli anni Sessanta e diretto da un Barry Sonnenfeld che sperava di replicare il successo di Men in Black declinandone formula e protagonista in chiave western/steampunk. Nulla di memorabile, ma ricordo che all’epoca mi ci divertii. Stesso discorso per The Lone Ranger di Gore Verbinski, interpretato da un Johnny Depp in piena fase faccette e da Armie Hammer, e pure questo tratto da una vecchia serie TV.

Sempre con Depp ci azzecca anche Dead Man, del 1995, western pischedelico girato da Jim Jarmusch in un cupo bianco e nero e avvolto da una lunga improvvisazione di Neil Young. Tra l’altro, mi pare che Dead Man sia stato il film di copertina del mio ultimo Mereghetti prima dell’internet: oh, all’epoca mi fidavo.

«Vai e torna quando avrai imparato più faccette!»

Altri western debordanti che mi vengono in mente. Il buono, il matto, il cattivo, diretto dal cineasta coerano Kim Ji-woon e ambientato nel deserto della Manciuria. Il film, come suggerisce il titolo, rende omaggio a Sergio Leone. Dalla Corea al Giappone si arriva a Sukiyaki Western Django, diretto nel 2007 da un Takashi Miike colmo di nostalgia per i pomeriggi dell’infanzia trascorsi a guardare spaghetti western in compagnia del padre, e interpretato - tra gli altri - da Quentin Tarantino. Tarantino che a sua volta si è divertito a “truffare” gli spettatori infilando cappello e cinturone a Django Unchained e The Hateful Eight, che, al netto di toni e ambientazioni sono strutturati rispettivamente come un film blaxploitation e un thriller ispirato a Carpenter.

Anche l’universo di Star Wars ha omaggiato il genere western in diverse occasioni. La più celebre di tutte, forse, resta la sequenza nella cantina di Mos Eisley con la sparatoria tra Han Solo e Greedo. Detto questo, però, il vecchio west farlocco a cui sono più legato per ragioni affettive è quello del terzo Ritorno al futuro. All’epoca, ero un fan sfegatato della trilogia di Zemeckis e dopo aver speso la pazzia di centocinquantamila ricche lire per il secondo episodio originale fresco di uscita in VHS, il terzo lo presi a noleggio, lo copiai agganciando il mio videoregistratore a quello di mio zio e ricavai la copertina da una rivista. Altri tempi, signori miei.

Prima di tirare le redini della galoppata, una capata veloce tra le serie animate. Si parte dagli Stati Uniti con BraveStarr, ambientata sul pianeta desertico New Texas, dove a dettare legge è lo sceriffo Marshall Bravestarr, di origine pellerossa (come voleva la moda dell’epoca) nonché dotato di poteri sciamanici.

Del cartone animato in questione ricordo poco, francamente, ma di sicuro ne andavo pazzo, visto che possedevo diversi giocattoli a tema. Tra tutti, ero particolarmente affezionato all’action figure del cavallo umanoide Trenta-Trenta (Thirty/Thirty, in originale), una sorta di “Battle-Cat” che faceva da spalla al protagonista.

Sceriffi delle stelle (Saber Rider and the Star Sheriffs) e I rangers delle galassie (The Adventures of the Galaxy Rangers) erano due rappresentanti del filone “western fantascientifico”, altrimenti detto “gente di giustizia nello spazio”. All’epoca, passavano per roba USA, ma in realtà c’erano di mezzo i giappi. Nel primo caso, abbiamo a che fare con un rimaneggiamento da parte di World Events Production dell’anime Sei Jūshi Bismarck, realizzato dallo studio Pierrot nel 1984. Operazioni del genere non erano rare, in quegli anni: basti pensare a Robotech, mostro di Frankenstein nato dalla fusione indiscriminata di tre anime diversi prodotti da Tatsunoko.

Per quanto riguarda i rangers, invece, la faccenda sembrerebbe più pulita, dal momento che la serie nasce nel 1986 dalla collaborazione tra lo studio americano Gaylord Entertainment Company e quello giapponese Tokyo Movie Shinsha.

La mia memoria fila decisamente meglio se si parla di Trigun, manga di Yasuhiro Nightow uscito nel 1995, da cui venne tratta nel 1998 una bella serie animata di ventisei episodi, firmata Madhouse e diretta da Satoshi Nishimura. L’anime sbarcò anche in Italia grazie alle cure di Dynamic e al circuito MTV, che lo trasmise con regolarità all’inizio del millennio. Così, anche noialtri aspiranti veejay ci godemmo le avventure di Vash the Stampede, la “calamità naturale vivente” dal cuore d’oro, e del suo compare, il reverendo/pistolero Nicholas D. Wolfwood (il Rei della situazione), impegnati a vagare lungo le terre desolate del pianeta a tema western Gunsmoke, alla ricerca del pericolosissimo Knives.

Chiudo questa breve e grossolana carrellata con una serie celeberrima che non riguardo da anni: Galaxy Express 999, del 1978, trasposizione animata del manga omonimo di Leiji Matsumoto e diretta da Nobutaka Nishizawa e Masayuki Akehi.

L’anime è ambientato in un 2021 fantastico e racconta il severo e poetico viaggio del giovane Masai Hoshino alla volta del pianeta Andromeda, dove gli esseri umani possono sfiorare l’immortalità attraverso dei corpi meccanici. Il viaggio si consuma a bordo del treno spaziale eponimo, il Galaxy Express 999, e ad accompagnare il ragazzo lungo le sue avventure c’è la bellissima e misteriosa Maisha Hikoshino.

Come ho detto, non attraverso le carrozze del Galaxy da moltissimo tempo, ma ancora oggi ho memoria di alcuni episodi deliberatamente a tema western, come ad esempio - da sbirciata su Wikipedia - il trittico de Il castello del tempo, dove il cammino di Masai e Maisha incrocia quello di Capitan Harlock.

Anche il look del protagonista ricorda un po’ quello dell’uomo senza nome della trilogia del dollaro di Leone, ma a prescindere da tutti questi segni, le immense distanze macinate dal treno spaziale mi hanno sempre lasciato in bocca il sapore della frontiera più di molti racconti western propriamente detti.

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Sorry, il titolo era solo una trappola per turisti.