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Immortality è creepypasta allo stato dell’arte

Immortality è il sogno avverato di tutti gli appassionati di leggende metropolitane, quelle che si tramandano nei forum, su cui indagano youtuber più o meno amatoriali, che qualche anno fa passavano pure in prima serata, protagoniste di qualche servizio di Mistero. Spesso campate per aria, totalmente inventate, assurde, eppure appassionanti, inquietanti, perturbanti, soprattutto se, come me, in certe cose ci si vuole credere per puro intrattenimento e amore dell’occulto, poco importa del fact checking. La suggestione vale molto più della verità, a volte. Esplorare le bobine di Immortality trasmette proprio quel mix di realtà e finzione, tensione, curiosità, inafferrabile orrore, nascosto in espressioni, parole, gesti, suoni. La percepibile qualità registica, la recitazione, il disordine e il disorientamento dovuto all’assenza di montaggio, le riprese dei dietro le quinte, di riunioni e interviste, che rendono ancora più intimo il rapporto tra spettatore e protagonisti; sono elementi che danno l’illusione di essere venuti davvero in possesso di materiale unico, soli al mondo a poter risolvere un mistero dai contorni sovrannaturali, per uno dei migliori found footage di sempre.

Gli anni passano, i formati video cambiano, eppure Marissa Marcel sembra non rispondere alle regole del tempo, eterea ed elegante come sempre, protagonista di tre cult mai usciti nelle sale, “maledetti”, si dice in giro. Gente morta sul set, incidenti, roba per cui era più comodo far sparire quei lavori piuttosto che cavalcarne il macabro fascino. Dimenticati, cancellati, archiviati in qualche studio della periferia di Los Angeles, sotto due dita di polvere. È tutto talmente convincente da sospettare che Sam Barlow abbia trovato le pellicole di persona, magari in qualche asta stile Garage Brothers, per poi appiccicarci il suo nome e darle in pasto agli store videoludici. Immortality è capace di diventare, in pochissimo tempo, un’ossessione, se riesce a penetrare e innestarsi nella testa delle persone giuste. Un’infezione, un fungo che cresce nel cervello e si mangia tutti i pensieri non necessari alla risoluzione del caso, trasformando in amatoriali detective dell’occulto, in preda alla suggestione. La prima volta che si scopre una scena segreta, sovrapposta a quella originale, riavvolgendo la bobina all’udire di quel particolare suono, tanto lugubre quanto invitante, come il canto di una sirena, è un momento rivelatore e sconvolgente.

Io sarò pure facilmente suggestionabile, però che trovata incredibile. Un’entità che si rivolge direttamente a noi, svelandosi, mostrandosi enigmatica, a tratti minacciosa, spesso malinconica, infestando un gameplay quasi esclusivamente cerebrale, che funziona in proporzione al coinvolgimento emotivo del giocatore che, all’improvviso, si scopre testimone, confessore, non più solo morboso osservatore. Una struttura che stimola la curiosità e si regge sulle speculazioni, teorie generate da pensieri centrifugati, balzando da una scena all’altra, dal ’68 al ’99 e ritorno, una vetrata in frantumi da ricostruire, ricordi di un’esistenza impossibile, frammenti di cinema e di vita, indistinguibili gli uni dagli altri. Un mistero che quasi si spera irrisolvibile, spaventati dal fantasma di una possibile banalità di fondo che, però, non abita quest’opera, capace di ragionare su identità, morte, ossessione, arte, violenza psicologica e fisica, concedendosi però di lasciare una superficiale glassa paranormale, inesplicabile, insondabile. Deliziosamente spaventosa e al contempo bizzarra, assurda, replicando (come probabilmente nessuno è mai riuscito a fare, tanto nel cinema quanto nei videogiochi) certe sensazioni tipiche del cinema di David Lynch, stranianti e conturbanti, addirittura perverse.

Quella di Barlow è un’opera in grado di spogliarci e consumarci, lasciandoci inermi in balia di noi stessi, sospesi tra reale e virtuale, davanti ad uno schermo popolato di persone che si muovono in loop, le stesse scene ripetute all’infinito, un take dopo l’altro, cogliendo ogni volta una sfumatura diversa, perché tutto sembra avere un significato, poco importa se ce l’abbia davvero o meno. “Silencio… No hay banda. È tutto registrato. È tutto un nastro. È solo un’illusione” dice il presentatore del club dove Rita e Betty, in Mulholland Drive, stanno per passare dal sogno alla realtà. Immortality è esattamente quell’attimo di sospensione, dove nelle profondità del sonno ci si rende improvvisamente conto dell’artificio, pur senza essersi ancora svegliati. Marissa recita quando improvvisamente un rivolo di sangue scuro le cola dal naso, fuori campo un’assistente trasalisce, l’attrice guarda in camera, la ripresa si interrompe, non prima di un leggero tremolio nell’inquadratura.

Questo articolo fa parte della Cover Story “I migliori spaventi della nostra vita”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.