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Inception, una storia di memoria e d'architettura

Nel 2010, Inception lo andai a vedere al cinema della mia città.

Può sembrare un dettaglio scontato, ma all’epoca andare al multisala non era ancora una prassi, quanto più un evento da caciara comunitaria.

Addirittura, non ricordo nemmeno se nel 2010 il cento commerciale con il multisala, che diventerà poi la mia principale sede cinematografica, avesse già aperto, o fosse stato già costruito. Del resto, sono passati dieci anni, dieci anni più una pandemia globale che rimescola tutte le carte e confonde i ricordi deformando il tempo. Solo il tempo, perché lo spazio, con la sua persistente invariabilità, è diventato difficile da deformare.

Non pare un cinema ma lo è.

La mia città ha tre sale cinematografiche. Forse sarebbe più corretto dire “aveva”, dato che il proprietario della terza, quella di cui sopra, è passato a miglior vita tra una fase e l’altra della pandemia. Vecchiaia, pare. Ma, dicevo, tre sale: quella neoclassico del ’24, che conserva ancora la sua impostazione teatrale; una saletta minore dalla collocazione infelice, ripetutamente soggetta ad allagamenti e quindi dal caratteristico odore di moquette ammuffita; quella grande, il Metropolitan, che nel nome non nega il suo slancio modernista, dove vidi tutta la trilogia de Il signore degli anelli, che a Natale incassava per tutto l’anno con i cinepanettoni e i film dei comici tv che impastavano tutte le battute e i tormentoni in un unico flusso che chiamavano “film”.

Sicuramente mi perdonerete questa introduzione sul viale della memoria di Aversa, ma non è di questo che, metatestualmente, parla anche Inception?

Quanto vivere in un ricordo può essere più affascinante che confrontarsi con la realtà? E quando il ricordo puoi ricostruirlo e migliorarlo a piacimento?

La progettazione dei sogni è una pratica affascinante. La si lascia agli architetti, perché spinge al limite massimo il loro feticismo di accumulare nozioni.

La creazione di uno spazio nuovo assemblando nella mente parti di ricordi di strutture che esistono da qualche altra parte. Più sono coerenti, più funzionano, più il sogno è realistico e il sognatore, la vittima del furto, non è in grado di distinguere la realtà dalla sua controparte onirica.

Certo, sono sogni che di “onirico” in senso stretto non hanno niente e proprio sul fatto di essere “credibili” giocano tutta la loro funzione di spazio mentale chiuso dove intrappolare il sognatore.

Le carceri.

Quanto di vero c’è nel mito, proposto dal film, del pericolo di assuefazione da parte degli architetti per le loro opere nel sogno è facile da constatare. Basta fare un giro su gruppi Facebook dedicati all’architettura “alta” per tastarne il polso. È che certamente c’è un grado di sconnessione dalla realtà che, in atto, possiamo chiamare anche “astrazione”, che è alla base di una professione che, letteralmente, si basa sulla creazione di qualcosa dal nulla. E non parlo della struttura, ma dello spazio al suo interno, dell’organizzazione dei flussi, della fruizione, della vivibilità. Tutti elementi immateriali che esistono solo nella mente e che, seguendo regole apparentemente aleatorie, si materializzano nel progetto finito.

La sconnessione, però avviante, quando questo legame tra edificio e utente finale viene reciso con un progetto troppo spostato verso l’autorialità, fino all’autoreferenziale. Le famose esplorazioni ombelicali, per capirci. Ma questa è un’altra storia.

Dal momento in cui il primo architetto guardò una colonna, resto dell’arcaica architettura che i romani presero in prestito dai greci, e pensò che forse sarebbe stato il perfetto completamento di una facciata altrimenti spoglia, facendo così nascere il Classicismo (le cose possono essere andate diversamente ma tant’è), l’architettura ha vissuto e proliferato grazie alla memoria degli architetti. Esiste una quantità limitata di forme innate e il meccanismo che all’atto della progettazione facciamo costantemente è adattare quelle forme, affilarle, modificarle affinché queste siano consone allo scopo di un nuovo progetto. Il michelangiolesco ordine gigante delle colonne di San Pietro al Vaticano è discendente diretto dalle colonne del Partenone dell’acropoli di Atene, in un processo durato secoli di adattamento delle forme impresse nella memoria.

“Non costruire mai a partire da un ricordo” era il monito che Cobb rivolgeva al personaggio di Elliot Page che, ancora studente, veniva introdotto al sogno e alle sue regole. È la prima regola, perché è inevitabile, nella progettazione, rielaborare da quello che si è visto o anche solo sfruttare una soluzione tecnica presa in prestito da opere più famose. È così che si costituirono percorsi filologici e tematici fino a che arrivò il Movimento Moderno, con la sua tabula rasa simbolica (che poi tanto rasa non era) che non ha fatto altro che rimpiazzare le forme della tradizione con forme nuove e moderne (come i famosi Cinque Punti di Le Corbusier).

La città analoga

Nel XVII secolo, per l’aristocrazia era d’uso comune partire per lunghi viaggi attraverso l’Europa Continentale, giù fino all’Italia, passando per l’Ile de France, per risalire simbolicamente alle radici della cultura occidentale ,fino alla Magna Grecia, con lo scopo di accrescere la propria cultura politica, filosofica e artistica. Questa tappa fondamentale nella formazione dei giovani aristocratici prendeva il nome di Grand Tour ed è all’origine del concetto stesso di turismo.

I nobili, con i loro diari di viaggio e con i loro taccuini da disegno, riportavano a casa una memoria estremamente vivida della cultura classica e rinascimentale e quel materiale costituiva una materia viva alla quale attingere, un bagaglio formale dal valore inestimabile.

C’è una lunga tradizione di artisti e di architetti che hanno creato qualcosa di nuovo a partire dalla composizione di elementi preesisti: Piranesi e le carceri o la sua scenografia del Campo Marzio, le viste impossibili di Venezia del Canaletto, la Città Analoga di Aldo Rossi e i collage di architettura e oro di Cherubino Gambardella.

Anche oggi, una grande parte dello studio della forma passa per una composizione di immagini presidenti con strumenti quali il collage o il fotomontaggio e non sono altro che nuove ipotesi spaziali create a partire da un ricordo, da una suggestione, dallo sguardo che costantemente ruba per reinterpretare il reale.

Supernapoli.

Nel 2010, mentre guardavo Inception al cinema Metropolitan di Aversa, non sapevo che sarei diventato un architetto. Ero in procinto di provare per la seconda volta medicina, come tutti i figli delle famiglie bene di Aversa, per assicurarmi un posto fisso e un titolo di studi da persona rispettabile.

Ignoravo quanto quella strada mi sarebbe potuta risultare inadatta, con tutte quelle ingerenze, quelle responsabilità, e quanto quel tipo di studi, così legati al nozionismo, mi sarebbe risultato odioso. Mi iscrissi ad architettura quasi per caso, finii gli studi perché evidentemente c’ero portato, anche se non lo sapevo.

Non sapevo nemmeno quanto la reinterpretazione del reale sarebbe diventata una compagna costante e come il movimento di rotazione e dello specchio che Elliot Page compie per generare il ponte sarebbe diventato pratica di ordinaria amministrazione della progettazione tramite CAD o BIM.

Nonostante riconoscessi a Dunkirk una oggettiva superiorità tecnica, Inception è stato per tantissimo tempo il mio film preferito di Christopher Nolan, almeno fino a quando non è arrivato Tenet.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Turisti per caso”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.