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Io, la mia gatta e il mio mese da allenatore

Oggi, in occasione dell’uscita di Pokémon: Let’s Go, vi parlerò della mia gatta.

Ormai da qualche settimana, sto allenando una micia di circa quattro mesi straordinariamente simile al pokémon felino Glameow. Oddio, allenare è una parola un po’ forte, visto che non intendo sfidare altri allenatori e/o entrare nel giro dei combattimenti illegali tra felini (anche se mi piacerebbe). Più che altro, col fatto che viene dalla strada la sto allenando a gestire la mia presenza e quella di altri esseri umani. Allo stesso tempo, sto mettendo alla prova le mie scarse meccaniche di accudimento, cercando di conciliarle con la brutale visione del mondo animale che mi porto dietro. Una visione tipo quella di Herzog in Grizzly Man, toh.

Nei limiti del possibile, fin dall’infanzia, ho sempre evitato di attribuire tratti umani a bestie e bestiole varie. Vivo nel pregiudizio che sia molto difficile - se non addirittura impossibile - costruire con loro dei rapporti completamente reciproci o basati su criteri comuni.

In ragione di questa credenza, mi sono sempre sentito a disagio con i nomi e, per non includere a forza i felini che razzolavano nel cortile all’interno del mio spazio civile, mi rivolgevo a loro chiamandoli semplicemente “gatto”. Questo al netto del fatto che nello spazio civile ci finissero eccome, visto che crocchette e veterinario in qualche modo levavano loro - del tutto o in parte, non ne ho idea - la capacità di procurarsi il cibo in autonomia o di affrontare i malanni alla loro maniera.

Temo di essere entrato in quest’ordine di idee a seguito di un episodio preciso: quando avevo più o meno dieci anni trovai in giardino un gatto con una brutta ferita alla zampa. Feci in modo di farlo visitare da un veterinario e, su indicazione, presi a medicarlo ogni sera. Sarà che i miei interventi gli procuravano dolore, sarà quel che sarà, ma la bestiola finì col fuggire con la ferita ancora infetta. La diedi per spacciata e ci rimasi malissimo, ma mio padre di più, al punto che da allora non l’ho più visto interpellare un veterinario.

Va anche detto che mio padre non rappresenta proprio il migliore degli esempi, in questo senso, visto che infila la porta del medico una volta ogni dieci anni, se va bene. E sempre per le brusche.

Io non raggiungo certi estremi; vuoi che sono un cagasotto, vuoi perché il raggio del discorso mi pare parecchio più ampio. Applicando le nostre conoscenze all’accudimento degli animali, in qualche modo, li snaturiamo? Può essere. È anche vero che noi pure siamo parte della natura proprio come il microbioma, le televisioni e i razzi spaziali, e ha poco senso stare a scervellarsi su ciò che sia giusto o sbagliato, ché alla fine come fai, fai a spanne. O almeno, io faccio così, a spanne.

Detto ciò, resto dell’idea che anche anche il più affettuoso dei felini, se si trovasse davanti il proprio amato umano in versione ridotta - tipo Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi o Downsizing - se lo sbranerebbe senza pensarci due volte.

Ecco, forse un cane no, non lo farebbe, perché i cani tendono ad affezionarsi. Mai piaciuti, i cani, a parte un paio di rimarchevoli eccezioni. Preferirei essere rimpicciolito e finire divorato da un gatto che uscire la sera per pisciare il cane. I cani sono troppo affettuosi e guardano i padroni con gratitudine; io, invece, col mio carattere a metà tra masochismo e narcisismo, sto bene con un animale solo se non mi caga, ché ci devo trovare un qualche ingaggio.

E i felini, in questo senso, sono perfetti. Soprattutto la mia, visto che non mi caga di pezza e pure adesso, a distanza di un mese, ho la sensazione di non piacerle affatto. Ma va bene. Sono nato e cresciuto in una città chiusa abitata da gente chiusa, la distanza mi mette a mio agio. Eppoi i gatti li ammiro, sono dei veri edonisti. Se un gatto sceglie di acciambellarsi su un angolo particolare di divano, significa che quell’angolo è oggettivamente migliore rispetto a quello dove siete seduti voi. Fateci caso.

Ma torniamo a bomba (per così dire). Ovviamente, l’idea di adottare una bestiola non è stata mia, ma della mia ragazza. Io ho cercato di convincerla che non fosse il caso e non sono riuscito a chiamarmi fuori con la scusa che ho già le mie console da accudire, da tenere aggiornate e da spolverare. Non c’è stato verso: o gatto, oppure una sera di queste sarebbe tornata a casa «con un cane puzzolente, peloso e piscioso».

Tra l’altro, la preparazione è stata più tribolata del previsto, dal momento che ho scoperto di essere allergico alla saliva dei felini, o qualcosa del genere, e ho dovuto procurarmi antistaminici e vaccini (quando ero piccolo, il problema non si poneva, visto che gli animali passavano il grosso del tempo in giardino; e in generale si vede che allora l’allergia mordeva meno, oh).

Poi, una bella mattina domenicale di qualche settimana fa, mi sono alzato e ho notato che lo stanzino adibito a sgabuzzino era chiuso a chiave. Sulla porta, un cartello: “NON APRIRE, GATTO!”.

La signora, di buon mattino, aveva raggiunto una colonia di randagi a dieci minuti da casa “gestita” da generiche gattare. Lì, aveva prelevato il primo felino che le era capitato a tiro, era passata dal veterinario e infine lo aveva chiuso nel suddetto stanzino, con tutte le persiane chiuse perché «bisogna evitare di mettergli paura».

In effetti, durante i primi giorni di permanenza, la bestiola non si è mai mossa dal suo covo. Per la precisione, non ha mai abbandonato un pertugio sotto al termosifone (bello caldo, per via della roba dell’edonismo di cui sopra), a sua volta coperto da un telo scuro.

E se per caso mi azzardavo a svelarla, la belva esibiva un soffio acre come certe vampire disturbate dalla luce. Così l’abbiamo chiamata Mina, che come nome funziona perché, oltre ad evocare Stoker, volendo, può riferirsi ai noti ordigni esplosivi o alla celebre cantante naturalizzata svizzera. Soprattutto, non mi fa sentire un pirla se lo pronuncio a voce alta.

Ho scoperto che per me è molto importante questa cosa dell’essere in agio col nome. All’inizio, siccome volevo fare il grosso, mi ero focalizzato sull’epica con “Bastet”, come la dea egizia; altrimenti: “Magnificat”, come il gatto di Philip K. Dick o “Jonesy”, come quello di Alien. Ma ogni volta che li pronunciavo a voce alta, mi sentivo un poser, quindi ho optato per Mina, che nasconde i suoi significati piuttosto bene, dietro un velo di apparente banalità.

Mina che, nel frattempo, ancora non si allontanava dal suo nascondiglio, se non per mangiare/cagare/pisciare nottetempo. Durante la prima settimana, abbiamo cercato di blandirla con giochini di ogni tipo, godendo ogni volta che la micia, anziché soffiare, usciva una zampina per acchiappare uno snack.

Di fatto, io e la mia ragazza ci eravamo ridotti a interagire con un telo. Lei, soprattutto, credo che da un certo punto in avanti si sia davvero affezionata a quel pezzo di stoffa, rassegnata all’idea che non avrebbe ricavato di meglio dall’esperienza con la gatta.

Tipo così.

Io, di contro, ho sempre avuto pochissima pazienza, soprattutto da quando gli smartphone mi hanno disabituato alla noia e alle attese. Così, una volta che ero particolarmente di traverso, ho finito per averne abbastanza di quel metodo Montessori per felini e ho strappato il velo. Così, senza senso.

- a margine: questa faccenda della gatta ha esacerbato, a seconda delle fasi, tutti i lati peggiori del mio carattere, dall’impazienza alla vanità, fino all’egoismo più bieco -

A quel punto eravamo uno di fronte all’altra, io e la micia, tipo Henry Fonda e Charles Bronson nel duello finale di C’era una volta il West. Ci siamo studiati, guardati per qualche secondo e poi: «Hiss!». Lei ha soffiato per prima e in tutta risposta, d’istinto, mi sono attaccato a una specie di canna da pesca per felini e ho iniziato ad agitarla per la stanza.

La micia ha preso a giocare.

Ha saltato, si è rotolata, ha mordicchiato. Soprattutto, per una buona mezz’ora, prima di tornare a nascondersi, ha scordato di essere terrorizzata a morte da casa nostra, da noi, dal fatto di essere stata sradicata dalla sua colonia. Aveva proprio ragione quel satanasso di Chris Crawford, quando, nei suoi discorsi alla GDC, partiva dalla raffinata attitudine ludica dei felini per parlare di videogiochi.

Ma pure quella dei cani.

Dopo quella prima volta, durante gli ultimi venti giorni, anziché darmi da fare con Red Dead Redemption 2, mi sono dedicato alla micia con giochi sempre più articolati; cercando di intrattenerla, sì, ma soprattutto impostando ogni volta nuovi obiettivi di avvicinamento e addomesticamento.

Sono partito dalle basi: cose semplici di bastoni con corda e piume, ma dopo un po’ ho iniziato a far evolvere variabili e spazi. Ho esplorato tutti i level design possibili di casa mia, sia in orizzontale che in verticale. Ho costruito labirinti di sedie e di scatole, castelli di cuscini; ho concepito veri e propri sistemi di livelli con regole, boss finali (cioè, il boss ero sempre io) e gratificazioni, intersecando le oscillazioni di fili ed esche con palline e sonagli.

Ho maneggiato topini a molla, rane di plastica e serpenti di pelo, cercando di infilarli in flussi ludici coerenti; ho indossato guanti à la Freddie Krueger alle cui estremità, anziché le lame, ho fissato giochini di ogni genere. Per giorni sono stato contemporaneamente game designer e giocatore; la micia aveva i suoi obiettivi, io i miei. Ovviamente non posso parlare per entrambi, ma personalmente mi sono divertito un botto. Inoltre, credo di avere imparato più cose sul game design in questo ultimi giorni che in anni di libri e video.

Variabili di design.

Inoltre, non avendo marmocchi per casa, ho riscoperto il piacere del caos, di procedere sul pavimento a gattoni, di vedere le cose dal basso come non mi capitava da, boh, quando giocavo con i LEGO alle elementari. È stata una sensazione strana, legata a cose passate; una saudade che non sperimentavo dai tempi del viaggio in Spagna di qualche anno fa, quando mi ero cagato addosso per colpa di certe tapas.

Oggi, a un mese di distanza dal cartello sulla porta, la micia ha imparato ad avvicinarsi. Non si nasconde più ogni volta che le passiamo di fianco e la sera si accoccola sul divano e mi guarda giocare ai videogiochi. Però ancora non si è fatta accarezzare, ‘sta stronza!

Questo articolo fa parte – assai pretestuosamente - della Cover Story dedicata ai Pokémon, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.