Johji Manabe è quello che ottieni incrociando Star Wars e Capitan Harlock
… e il clickbait lo abbiamo messo.
Ora, Johji Manabe, si diceva: con un tono un po’ da Racconti dall’ospizio, potrei dire che c’è stato un tempo in cui non c’era otaku occidentale che non conoscesse il nome di Johji Manabe. Pensate che è successo talmente tanto tempo fa che manco ci definivamo “otaku”, ma più genericamente “nerd”. Tanto tempo fa che la parola “nerd” era ancora uno stigma e non la chiave che apre i salotti buoni della società e ti pompa il conto corrente di bitcoin guadagnati a suon di streaming, podcast e starring su youtube (a proposito, devo chiedere a giopep quando cominciano ad arrivare i bonifici, immagino sia questione di giorni).
Così, tanto tempo fa, per essere chiari, che se ti presentavi come “(nerd) appassionato di animazione giapponese” (“anime” e “manga” erano ancora termini da iniziati), immediatamente si pensava che i tuoi interessi fossero discinte guerriere dagli enormi occhioni in lotta contro fallici tentacoli. Falso pregiudizio alimentato da pochissimi anime pornografici, quando la maggior parte della produzione anime e manga arrivata in occidente era prevalentemente dominata dallo shiatsu-splatter di Ken il Guerriero, cyborg, fantascienza seriosa e cyberpunk.
Fortunatamente, poi, arrivò Johji Manabe…
Scherzi a parte, il paffuto mangaka di Takamatsu, esponente della “New Wave” manga che si impose a partire da metà anni Ottanta, si caratterizzò per la sua fantascienza composta in egual misura della parte più grandiosamente “epica” della space opera, con le creature e le visioni più surreali e ingenue della fantascienza pulp del secondo dopoguerra, con protagonisti, anzi “protagoniste”, uscite dritte dalla heroic fantasy più muscolare.
Outlanders, Karavan Kidd, Drakuun citando solo i titoli arrivati anche in Italia, erano un tripudio di principesse guerriere in bikini corazzato, che con il solo ausilio di una spada a due mani e una sfacciataggine senza limiti, si contrapponevano ad imperi galattici retti da titanici oligarchi, che con pugno di ferro avevano assoggettato pianeti, culture e razze diversissime. Caste di individui in nulla dissimili dall’homo sapiens erano o portavoci del volere imperiale o eretici rancorosi confinati in qualche pianeta dimenticatoio (tipo, per dire, la Terra); mercanti insettiformi contrabbandavano beni e persone sotto gli occhi, convenientemente chiusi, di massicci felini antropomorfi arruolati come legionari; navi cargo dalle geometrie spigolose affiancavano negli spazioporti caravelle di pirati e bio-vascelli da guerra dalla forma di enormi lumache.
Tutto veniva reso da Manabe con la stessa cura certosina che metteva nel dettagliare i personaggi: debitore evidente dello stile della “regina” Rumiko Takahashi, in qualche modo la sorpassò, andando a cercare, anche a costo di rischiare qualche appesantimento, una più netta fisicità dei suoi personaggi.
Tanto più pompava le muscolature, le armature, le armi, tanto più espandeva la sua epica, senza preoccuparsi troppo di coerenza e altri ammennicoli.
Era, insomma, la perfetta crasi di Uruseyatsura, Capitan Harlock e Star Wars; impossibile infatti non cogliere quanto “L’Impero” di riferimento non potesse che essere quello del giovane regista di Modesto(CAL), con la sopracitata bizzarra mescolanza di razze, di occulti registi ammantati di paramenti sacerdotali, ma anche pianeti che più che “culture” erano “temi”: ampi pianeti desertici unicamente “western” (Caravan Kidd) attraversati da pistoleri e ciarlatani, asteroidi “kasbah” dominati da corporazioni mercantili, centri del potere disegnati sulle bozze di Metropolis, speziati a volte con qualche accenno di H.R. Giger (Outlanders). E, sopratutto, la convinzione che “Le strane religioni e le loro antiche armi”, sopratutto se in mano a una principessa incazzosa o un guerriero indomito, contassero parecchio, contro folgoratori, armi da fuoco e quanto altro.
L’apice di questo percorso fu probabilmente Rai: la leggenda degli eroi delle Guerre Galattiche. Ispirandosi più o meno liberamente al periodo degli “Stati Guerreggianti”, seguito al collasso dell’impero Zhou nell’antica Cina, Manabe traspone quella che è una fra le più raccontate guerre dinastiche orientali su tutta la Via Lattea, animando scontri di fanteria armata di spade, lance ed armi da fuoco incoerenti tra loro, su pianeti, satelliti e persino sulle “chiglie” di navi spaziali di forma non dissimile dalle corazzate della Seconda Guerra Mondiale (o dalla Arcadia di Harlock), supportate ovviamente da aerosiluranti, cacciatorpedinieri e sommergibili (?).
In questa bulimica incoerenza, si permette però di tratteggiare forse la sua storia più seria, dando addirittura il ruolo di protagonista indiscusso a un ambizioso giovane guerriero (maschio!!!) e dettagliando con molta credibilità una civiltà feudale in cui solo il collasso delle gerarchie permette a giovani arrampicatori di guadagnarsi sul campo fama o morte e in cui le donne sono, salvo pochissime (e malviste) eccezioni, destinate a matrimoni dinastici e, quindi, molto più modeste nel vestire di quanto ci avesse abituato. Anche la sua narrazione, in questo caso, riduce lo spazio dedicato alle smargiassate degli eroi (comunque in grado di mutare l’esito di una battaglia solo grazie alla loro prestanza) ma ne dedica ampio ai giochi di potere, alle alleanze velenose, alle tattiche e strategie militari e, sopratutto, alla ricerca spasmodica, da parte dei leader più ambiziosi, di persone in grado di concepire e pianificare quanto sopra.
Dopo Rai, purtroppo mai concluso in Italia causa la scomparsa della piccola editrice Shin Vision, Manabe continuerà ancora per qualche tempo a produrre “Epic Space Opera” ma tornando su toni più rilassati e coltivando ancora di più la sensualità delle sue protagoniste, a cui torna a dare tratti ferini e animaleschi (Drakuun), precedendo poi di qualche decennio Beastars con il suo Wild Kingdom: un divertissement in cui la savana viene rappresentata come una civiltà di animali decisamente antropomorfi e in cui un leone vegetariano detta le sue regole a suon di mazzate.
Poi, per qualche motivo, dopo aver abbandonato i suoi esordi come disegnatore di doujin (riviste a fumetti autoprodotte) pornografiche per passare alla “serie A” degli autori shonen, percorso per altro comune a tantissimi suoi colleghi, a un certo punto Manabe deciderà che il porno lo fa guadagnare, o divertire, o entrambe le cose, di più e vi ritornerà entusiasta, con tutti i suoi assistenti dello Studio Katsudon.
Salvo qualche rimembranza delle sue space opera, sfruttate per parodie porno, si sposterà su ambientazioni più contemporanee, senza disdegnare di inserire comunque un po’ di trama tra una scena di sesso e l’altra.
Cioè, non che io lo sappia per esperienza personale, eh!
Me lo ha raccontato mio cugino.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Star Wars, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.