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Johnny Mnemonic – Il primo vizio cyberpunk di Keanu Reeves

Evito incursioni filologiche sulla figura di William Gibson e relativo apparato tematico; vorrei dare per scontato che tutti, chi più chi meno, conoscano una delle ragioni per cui in questi giorni è particolarmente bello essere videogiocatori (o forse il contrario).

Il cyberpunk piace chiunque, dal momento che è immerso in una cornice contenutistica facilmente assimilabile dalla cultura popolare. Tuttavia, trovo opportuno ricordare quanto in realtà il cyberpunk sia geneticamente molto meno opulento di quanto appaia. I più seminali fra gli scritti che hanno sublimato il genere hanno sempre trasmesso ai propri lettori un giusto metro di giudizio; un giudizio sul mondo e sui suoi abitanti e, quindi, sulle loro abitudini culturali, sociali e politiche. Il più delle volte questo giudizio risultava pesantemente negativo. Un fallimento evoluzionistico.

Fra le rappresentazioni che meglio hanno sottolineato il degrado sistemico di queste società oltremodo digitalizzate, c’è un filmino del 1995 diretto da Robert Longo e liberamente tratto dall’omonimo racconto incluso nell’antologia La notte che bruciammo Chrome, di William Gibson. MI riferisco a Johnny Mnemonic.

La memoria di un pesce rosso.

Non particolarmente celebrato per la regia, praticamente frutto di un mestierante, negli anni il film è riuscito tuttavia a ritagliarsi lo stato di semi-cult tra una particolare cerchia di appassionati per tutta una serie di ragioni a cominciare dal protagonista, Keanu Reeves. Lui, l’eletto, il tizio triste seduto in panchina (come le rane), il sicario amante dei cani e, soltanto di recente, una rockstar rivoluzionaria che vorrebbe bruciare una città. All’occorrenza è stato anche autista di pullman.

Keanu piace a chiunque; e giustamente, aggiungerei. Un’ideale d’uomo perfettamente opposto ai dogmi tossici che un certo cinema comunica. Ora, a proposito di Johnny Mnemonic mi è tornato in mente uno di quei finti trailer di Maccio Capatonda (?), non ricordo quale, che a un certo punto recitava “da un fotoromanzo di Johnny Mnemonic”. Sono cresciuto con questa gag scolpita nella mente; cosa che, implicitamente, non fece altro che aumentare la mia personale affezione per un film che ha distinto la mia infanzia.

Udo Kier (secondo da sinistra) aveva già condiviso con Reeves il set di Belli e dannati.

Oggettivamente Johnny è una chiave USB, meglio dirlo subito. Un ricordante, un contenitore mobile di dati con relativi limiti di capienza. Un mestiere ricercato, il suo, nel mondo meravigliosamente marcio che abita.

Il palinsesto in cui il nostro drive umano gironzola è forse la rappresentazione più estrema di un ambiente cyberpunk apparsa finora al cinema. Un mondo vessato dal corporativismo, dalle malattie e dall’inquinamento. Da questa premessa riceviamo la descrizione esatta del mondo in cui Johnny si guadagna da vivere: trasporto di dati sensibili da una parte all’altra del globo.

Quella volta però i dati erano ben più che sensibili, e il loro peso, sulla mente del corriere ne è la prova. Johnny sta male, deve assolutamente scaricare quei dati che pare, peraltro, abbiano attirato attenzioni particolari; malavitosi squisitamente in pendant con la mitologia stilistica cyberpunk: la yakuza, direttamente subordinata alla corporazione di turno, la Pharmakom, al cui vertice siede lui, il più legittimamente yakuza di tutti, Takeshi “Beat” Kitano.

«Lottare con i bastoni non è l'arte del combattimento. Un vero samurai usa la spada».

Da questo momento in poi la storia entra in un susseguirsi di momenti incredibilmente climatici, resi tali prevalentemente dalla variegata platea di personaggi; tutti rigorosamente pittorici ed esilaranti, come le due guardie del corpo di Ralfi, un piccolo malavitoso interpretato dal sempre grandissimo Udo Kier. Volti interessanti anche solo da un punto di vista meramente estetico. Il processo di costruzione dei personaggi è chiaro e cristallino: iperbolici, stravaganti, trasgressivi, eccentrici, ma anche brutali. Una regola aurea che sembra accomunare la quasi totalità delle opere rientranti nel genere. E a proposito di brutalità, come dimenticare sua religiosità Il predicatore, interpretato nientemeno che da Dolph Lundgren.

«D'ora in poi sarai pescatore di uomini».

Questo è la sintesi del cyberpunk. Un uomo che non è più un uomo. Celato dietro la figura di un folle predicatore, è in realtà un brutale sicario. Questo segue l’iter stilistico tipico dei sicari degli universi sci-fi underground: un manifesto transumanista in cui protesi e innesti hanno suffragato l’obsolescenza della carne. Potenziamenti finalizzati a rendere assoluta la propria letalità. Il Predicatore è tutto questo, una macchina inarrestabile e violenta che braccherà Johnny e Jane con caparbietà estrema. A proposito di Jane, Impiegheremo poco a venire a conoscenza del suo stato di salute precario a causa del Tremore Nero, la NAS, un terrificante morbo di origine digitale:

Questo aspetto è decisamente interessante e getta ulteriore credibilità al film, essendo l’unico vero denominatore comune a tutte le opere che compongono questo mosaico post-umano. Malattie causate dal solo e unico accelerazionismo della società.

Al di là dell’etica e della morale, Johnny Mnemonic è grandioso anche per la sola resa estetica. Andavo e vado pazzo per il concept dietro J-Bone e i suoi Lo-Tek, così meravigliosamente metropolitani. Una subcultura simbolo indistinguibile del decadimento propagandato dal cyberpunk. D’altronde, proprio in Cyberpunk 2077 avremo direttamente a che fare con la fenomenologia delle gang, e non dimentichiamoci che questi danno asilo a Jones, il delfino con capacità di decrittazione. Chi è cresciuto negli anni Novanta ricorderà System Shock di Looking Glass Studios, uno dei capisaldi del genere cyberpunk in ambito videogiochi. Se ricordate, c’erano queste sessioni di hacking in wireframe; una vera novità per il tempo. Ora, non ditemi di non aver avuto un forte senso di déjà vu quando Johnny, in una scena del film, dopo aver elencato hardware a me tutt’ora incomprensibili (alcuni dei quali brandizzati con degli immancabili kanji), entra nella rete attraverso quella che è, a tutti gli effetti, una realtà virtuale. Quella realtà virtuale da sempre simbolo dell’estetica cyberpunk.

«Benvenuto nel mondo vero, Neo».

Johnny Mnemonic non è un capolavoro, tuttavia percepisco che non è ancora giunto il momento fatidico della sua “rivalutazione” da parte della critica; la stessa che nel 1982 considerava La Cosa di Carpenter un film mediocre e che oggi lo annovera fra i capolavori dell’horror. Forse questa rivalutazione non avverrà mai, eppure, nel suo essere un personalissimo cult della mia infanzia, credo e sostengo che abbia avuto la forza di rappresentare il cyberpunk nella sua declinazione più feroce e brutale possibile.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a Keanu Reeves, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.