Jungle Hunt in pizzeria | Racconti dall’ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Una domanda che si fa e a cui si risponde spesso nei salotti bene del videogioco è quella sul primo gioco che hai provato in vita tua. E da lì partono tipicamente racconti su che razza di botta fu, quanto ti fece innamorare all’improvviso, come ti rendesti conto che là fuori c'era un mondo incredibile a base di luci, suoni e colori. Si tratta di una memoria cara e significativa per un po' tutte le persone appassionate di videogiochi, ma spesso anche chi poi i videogiochi li ha abbandonati ha un ricordo del genere da buttare sul piatto. Inoltre, la gente della mia generazione e, ancora meglio, chi si porta sulle spalle qualche anno più di me può infiliarci il bonus e darsi l'aria da pioniere, da antico colonizzatore che c'era quando venne scoperto il nuovo mondo.
A me, invece, questa domanda mette in difficoltà, perché le mie memorie dell'infanzia sono un cumulo sparso, confuso, da cui escono pezzetti a caso e che fatico a piazzare con chiarezza e coerenza. Avrò rimosso tutto per proteggermi dai traumi infantili, boh. E sì, ovviamente ho ricordi precisi di quando ho messo mano a questo o quel gioco, o di quella volta che è successa quella cosa mentre giocavo a quell'altro gioco, ci mancherebbe. La prima volta che mi sono trovato davanti, e a bocca aperta, all’introduzione di Another World. Quel Natale passato in tre appiccicati a The Dig fino al mattino. La telefonata alle tre di notte perché era stato risolto un enigma di The Colonel’s Bequest. Il bestemmione urlato quando riuscii a sconfiggere l’ultimo boss di Thunderforce III. Il pomeriggio passato davanti a Time Tunnel per Commodore 64 mentre altrove si celebrava un funerale. Wonder Boy allo stabilimento balneare. L’autobus fino a Rapallo per giocare a Shadow Warriors. Le fucilate al ragno gigante di Resident Evil mentre qualcuno stava morendo. Ma il primo videogioco? Il primo ricordo videoludico? Vai a sapere. Se dovessi puntare il dito sul primo videogioco della mia vita, farei molta fatica ad avere certezze. Dovendolo eventualmente fare, pistola alla tempia, penso che direi Jungle Hunt. Che poi è il motivo per cui sto scrivendo questo Racconto dall'ospizio, visto che l'estate del 2022, mese più, mese meno, segna i quarant'anni dal suo arrivo in sala giochi.
Penso che Jungle Hunt potrebbe essere il primo per due semplici deduzioni. Innanzitutto, gli anni tornano abbastanza. Nell'estate del 1982 avevo quasi cinque anni, che mi sembra un'età credibile per non aver ancora avuto accesso ad alcun videogioco "casalingo" ed essermi ritrovato per la prima volta a pasticciare con un cabinato in luogo pubblico. Al di là che poi magari i miei ricordi sono legati all'estate del 1983, vai a sapere. In più, il fatto che, fra tutte le robe che ho dimenticato di quegli anni, io abbia in testa in maniera così chiara, seppur comunque confusa, il ricordo di quel videogioco in quel posto in quel momento mi fa pensare che sia stato in qualche modo un videogioco importante. Magari proprio il primo.
Ma cos'era, Jungle Hunt? Wikipedia ce lo racconta come gioco d'azione fra i primi della storia a poter vantare lo scrolling parallattico, assieme a Moon Patrol che risale appunto alla stessa estate. Tra l’altro, della stessa estate è Pitfall!, cosa che fa venire in mente i bei tempi in cui da Hollywood spuntavano assieme due film con l’asteroide, due film con il vulcano e via dicendo. Ma sto divagando. In Jungle Hunt si controlla un esploratore impegnato a cercare di salvare la solita donzella rapita, affrontando quattro schermate/livelli diversi che poi, in pieno stile Donkey Kong, tornano a ripetersi dall’inizio. In questo senso, Jungle Hunt fa quasi da anello di congiunzione in una fase che stava vedendo cambiare il videogioco da sala. Da un lato non abbiamo schermate fisse e i singoli livelli si propagano lungo un percorso, dall’altro si conserva però la struttura che potenzialmente/teoricamente permette al giocatore esperto di giocare all’infinito e/o fino al raggiungimento di limiti tecnici.
Il gioco prodotto da Taito viene accolto con amore, i giornalisti ne parlano come del secondo avvento di Space Invaders e le sale giochi lo premiano come roba da top ten per due anni consecutivi. E infatti, chissà, magari nel retro di quella pizzeria in cui lo incontrai c'era appunto arrivato durante il 1983, a seguito di questo successo clamoroso. Non saprei. Io ricordo solo che ero in pizzeria (ma era veramente una pizzeria?) assieme a mia madre e a qualcun altro. Un’amica di famiglia? Una collega? Un cane? Chissà. Ricordo che avevamo finito di mangiare e io mi ero avventurato in una stanza nel retro, in cui c’era un videogioco o forse due. Era il mio primo incontro con un cabinato? Sì? No? Forse? Tra l’altro, questa cosa della stanza nel retro con il videogioco mi ricordo chiaramente che “esisteva” in un ristorante/bar di Tortoreto alta. Però ho la forte impressione che non fossimo lì ma da qualche parte nel milanese. O magari a Brescia! Nel 1982 può essere che fossimo ancora a Brescia. Che casino. Comunque, c’è una cosa che ricordo in maniera netta e totalizzante: ero rapito. Affascinato, stupito, ammaliato. C’era questa sensazione di avventura, di esplorazione, di sfida, di mammamianoncicapisconulla ma anche di riuscire pian piano a capirci molto.
Ricordo anche chiaramente i quattro livelli, quello sulle liane, la nuotata sott’acqua, la scalata saltando le rocce e infine i due cannibali da schivare per raggiungere la bella da salvare, appesa sopra al pentolone pronto a lessarla. Mi ricordo proprio di avercela fatta, di esserci arrivato. Direttamente quel pomeriggio? Ne dubito, anche perché ricordo chiaramente una sensazione di non essere all’altezza, di una cosa troppo tosta per me, che mi sconfiggeva probabilmente al secondo livello, già raggiunto a fatica. E ricordo anche un grande classico: aver finito le monetine elargite dal genitore e starmene lì a osservare l’attract mode, a far finta di giocare, a guardare gli altri più grandi che subentrano e giocano meglio di me. Quello che non ricordo, invece, probabilmente perché l’ho scoperto mezz’ora fa leggendolo su Wikipedia, è che Jungle Hunt era nato come Jungle King.
In una situazione che se vogliamo può ricordare quella affrontata da Nintendo con Donkey Kong, la prima versione del gioco prodotta da Taito aveva un look lievemente diverso, pesantemente ispirato a quello di Tarzan. Il protagonista era un capellone biondo, con le grazie coperte da una pelle di leopardo, che saltava da una liana all’altra e, al termine del secondo livello, si scatenava in un urlo selvaggio. I detentori dei diritti dell’opera di Edward Rice Burroughs attivarono l’ufficio legale e Taito non ci pensò due volte: ecco che improvvisamente il protagonista era un esploratore baffuto con cappello e indumenti adeguati, le liane erano state modificate per sembrare delle corde e l’urlo era stato coperto da una traccia musicale.
Tutto questo, per altro, avveniva per mezzo di una grafica che a guardarla oggi risulta incredibilmente rozza e, perlomeno ai miei occhi, impacciatissima soprattutto nelle animazioni del protagonista. Ma pensateci, stiamo parlando di quarant’anni fa e di un videogioco, come detto in apertura, tecnicamente all’avanguardia, e infatti nei miei ricordi di bambino, anche se non avevo idea di cosa fosse lo scrolling parallattico, era uno spettacolo per gli occhi. Aveva carisma, personalità, potenza brutale, era proprio bello bello bello, e in particolare provo ancora un affetto enorme nei confronti dei cannibali, delle loro maschere così evocative. Tra l’altro, ricordo chiaramente anche quanto lo trovassi molto più spettacolare di Pitfall!, anche se il gioco di David Crane aveva ovviamente ben altri meriti in termini di profondità. Un’altra cosa che non ricordo, invece, è l’esistenza di una specie di pseudo seguito/spin-off/riciclo.
Pirate Pete, lanciato da Taito qualche mese dopo, è quasi letteralmente lo stesso gioco con un reskin a tema piratesco. Si comincia da un veliero assurdamente lungo che viene superato zompando da una corda all’altra, per poi tuffarsi in mare e schivare squali invece di coccodrilli, tornare sulla terra ferma per saltare anche qui delle rocce e infine schivare due pirati cannibali (!) che stanno cercando di lessare la bella di turno. Cambia anche il look dei due protagonisti, ovviamente piratesco, ma per il resto siamo lì. L’unica differenza significativa in termini di gioco si trova nel livello conclusivo, dove appare a sorpresa un terzo pirata, appollaiato in cima a una rupe, pronto a tirarci la sua unica sciabola nella speranza di fermare il nostro assalto.
Di contro, anche se francamente non me ne ricordavo e continuo a non ricordarmene ma ho le prove e stanno nella foto qua di fianco, una roba di cui ero a conoscenza e con cui avevo familiarità è una delle versioni casalinghe di Jungle Hunt. A occuparsene fu Atari su un po’ tutti i formati e io misi le mani sul gioco per Atari 2600, immagino due o tre anni dopo, quando mi ritrovai in casa la console grazie alla generosità di mio zio, che me la sbolognò insieme a una valanga di giochi perché era passato al Commodore 64. E non era una brutta conversione: certo, c’erano delle rinunce significative dal punto di vista estetico e il livello dei massi rotolanti non era più in salita, cosa che rendeva abbastanza incomprensibile il loro rotolare, ma insomma, il gioco c’era tutto, dall’inizio alla fine, cannibali e pentolone inclusi. Se devo essere onesto, non ho nessun ricordo di averci giocato e oltretutto sto scrivendo questo articolo in trasferta, quindi non posso nemmeno andare a controllare se avevo appuntato dei punteggi nel manuale come ero solito fare. Ma insomma, lo do per scontato, di averci giocato, e neanche poco, dato che a Jungle Hunt volevo molto bene, anche perché, insomma, probabilmente mi stava più simpatico di Pitfall!, che per me era troppo difficile. Oltretutto, Jungle Hunt lo associo senza se e senza ma all’immagine là in cima, che è quella della copertina per Atari 2600.
Una cosa, però, forse la ricordo: già all’epoca mi faceva girare le palle rendermi conto di quanto i giochi a casa fossero non solo più brutti, ma spesso anche proprio diversi rispetto agli originali. E questa cosa mi avrebbe impedito di godermi un sacco di cose per tanti anni. Ma tanti, eh! Ricordo che non giocai ad alcune cose dei primi anni ‘00 perché non avevo un PC all’altezza e le versioni console erano monche. E ricordo che mi dava fastidio quando venivano fatte modifiche rispetto al coin-op, anche se magari erano modifiche per il meglio, tipo nel caso di Bionic Commando. Che spaccamaroni.