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Katamari Damacy: rumenta, per chi non si accontenta | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Ripensando al 2004, alle differenze da allora ad oggi, la prima cosa che mi viene in mente è che non eravamo così tanto in balia di tutto. Non c’erano dieci servizi di streaming televisivi, i giochi indie non venivano prodotti in massa e distribuiti online, il cinema coreano usciva dalla sua tana solo per i festival… in generale, non si conviveva costantemente con la sensazione di perdersi qualcosa. O meglio, c’era sempre qualcosa da recuperare, ma non c’era un assillo social, un costante vociare a giudicarti silenziosamente se non guardavi quello o non giocavi a questo. Erano tempi più permissivi, in cui potevi decidere quando fare le cose, riempiendo i vuoti tra un’uscita e l’altra con qualcosa che ti eri lasciato indietro nel corso dell’esistenza.

Un’altra differenza rispetto a oggi è che nel 2004 molte cose erano davvero nuove. Soprattutto per quanto riguarda videogiochi e tecnologia, nel 2020 raramente ti ritrovi sorpreso da un’uscita, da un nuovo pezzo di hardware, da qualcosa di appena arrivato sul mercato o sugli store digitali: nell’era dei [gioco]like, dei telefoni pieghevoli già diventati la norma e degli algoritmi che riempiono buchi nel palinsesto, diventa sempre più difficile non sentirsi protagonisti di un giorno della marmotta, di un The Truman Show in cui succedono sempre le stesse cose, solo in maniera leggermente diversa, tanto per tenerti in attesa della next big thing. O, forse, il problema dell’oggi è proprio che la next big thing ha una vita molto più corta rispetto a quanto non la avesse vent’anni fa. Del resto, cos’è la felicità? 

Poi, intendiamoci, non dico necessariamente che si stesse meglio vent’anni fa… no, anzi, mi fa schifo solo scriverlo. Dico solo che nel 2004 usciva Katamari Damacy, che da un lato era esattamente una cosa nuova, fresca, pazza e adorabilmente bizzarra, dall’altro era una roba che fondava la sua follia e il suo gameplay proprio sull’idea che, già allora, fossimo sommersi dagli oggetti, in balia di una corrente materialista che non ci faceva apprezzare quello che già avevamo, le piccole cose, e in generale i dettagli di quello che ci circonda. 

La premessa di Katamari Damacy vede il Re del cosmo, edonista spaziale per antonomasia, distruggere tutte le stelle del cielo per sbaglio, durante una serata particolarmente pregna di eventi. Come un boomer qualsiasi, il Re affida la ricostruzione delle macerie al povero Principe del cosmo, armato solo di una partita IVA e soprattutto di un Katamari, sfera super incollosa con cui tirare su tutta la munnezza della Terra e, possibilmente, anche qualcosa di commestibile per la cena. Al netto delle analogie, la metafora rimane: la Terra, con il suo surplus consumista, è il luogo perfetto della galassia per raccogliere cose inutili da bruciare, in modo da ripopolare il cielo con i vari astri, indebitamente cancellati da una festa di pensionamento anticipato troppo rumorosa.

Non è quindi un caso che Katamari Damacy si apra con un piccolo Principe, che comincia il suo viaggio da netturbino galattico nella cameretta di una piccola casa giapponese, piena di cianfrusaglie ordinate in maniera incredibile. A forza di rotolare, il Katamari passerà dal raccogliere le graffette ai gatti, e poi a valanga bambini, orsi, grattacieli e mostri grossi, perché del resto siamo pur sempre in un gioco giapponese e, si sa, il primo ad essere venuto sulla terra per metterci di fronte ai nostri peccati è stato proprio Godzilla, re di tutti i re. Un’escalation, quella di Katamari Damacy, che oltre a tenere incollati i giocatori grazie al più classico meccanismo di crescita (pun not intended, anche se… ), si fa amare grazie a un level design magistrale, in grado di svelare tutto un bucolico mondo di superfluo livello dopo livello, partendo letteralmente da una casettina di periferia fino ad arrivare al cielo, mano a mano che la palla di munnezza aumenta di diametro.

Un crescendo entusiasmante, che coerentemente finisce prima che sia “troppo”, che l’idea nuova e bizzarra finisca per essere l’ennesima cosa già vista, mollata a prendere polvere sul nostro scaffale più o meno digitale. Katamari Damacy, insomma, è un capolavoro senza tempo per mille motivi: per essere uscito nel momento giusto, per essere ancora divertentissimo sia come scrittura che come gameplay, per la sua capacità di dire qualcosa di nuovo ogni volta che lo si prende in mano, per averci detto quindici anni fa che saremmo finiti sommersi da tutto e, soprattutto, per come ogni tanto farebbe bene mettere la testa fuori dal ciarpame e uscire a riveder le stelle.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.