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Kena: Bridge of Spirits è il videogioco di genere allo stato dell’arte

C’è chi traccia una strada e chi la segue. Sempre, in qualsiasi media e forma d’arte. Chi inventa, rivoluziona, offre al pubblico il proprio genio sotto forma di un’esperienza unica, inedita e chi usa con più o meno successo, gusto e saggezza quei template, scegliendo un’architettura ludica già collaudata, quella giusta per veicolare il proprio messaggio, la propria idea di videogioco. Per Ember Lab, ad esempio, il disegno da ricalcare è stato quello dell’action/adventure post-ICO, e in Kena infatti pulsa tutta l’evoluzione del genere dal 2001 a oggi. Ci sono reminiscenze di Jak & Daxter, dei Prince of Persia di Ubisoft, Uncharted, Enslaved e di un po’ tutto quel modo di fare genere di Ninja Theory, ma anche una struttura che ricorda da vicinissimo l’ultimo God of War, con una regione di dimensioni contenute da esplorare in stile metroidvania, un piccolo mondo aperto senza soluzione di continuità, caricamenti o livelli ma comunque limitato nella libertà d’azione dai potenziamenti della nostra eroina, incanalando l’esplorazione con estrema naturalezza e fluidità su binari già tracciati, nascondendoli con estrema eleganza.

La differenza tra l’ennesima sequenza di scalata e una buona sequenza di scalata sta nella capacità di renderla significativa e scenografica all’interno di una determinata situazione. Kena ci riesce praticamente sempre.

Ma la cosa incantevole è stata vedere come questi ragazzi abbiano voluto prendere in prestito solo il necessario, elementi specifici che hanno ritenuto perfetti per creare un’opera di personalità assoluta, capace di scaldare il cuore dal primo all’ultimo secondo, senza che ci sia un singolo istante insipido, grigio. Perché quando fai bene l’essenziale e lo curi con amore, limi gli spigoli, cerchi di far sì che ogni sequenza di gameplay abbia qualcosa da dire, un’emozione da trasmettere, un gesto da ricordare, senza utilizzare riempitivi artificiosi o espedienti narrativi che diluiscono il racconto, allora dimostri di capire cos’è il videogioco, ma anche di avere bene in testa cosa deve essere il tuo videogioco.

Poco importa se è la prima opera o la ventesima, è questione di mentalità, di aver gestito il lavoro in maniera impeccabile, in totale serenità, senza sbandierare ambizioni irraggiungibili ma trattando il genere con delicatezza, la stessa con cui Kena si muove e determina il destino di questo mondo all’apparenza raggiante ma corrotto, morente, ricoperto dalle metastasi di una natura malata, avvelenata dall’uomo. I suoi dolci tratti da principessa Disney lasciano trasparire una malinconia sincera e soffocante, quella di chi porta il peso di essere guida spirituale, traghettatrice solitaria di anime che non hanno ancora superato il trauma della morte o indissolubilmente legate un obiettivo rimasto in sospeso, illudendosi che non sia ancora giunto il momento di passare oltre. I suoi rari sorrisi a illuminare occhi profondissimi che ardono di determinazione, alimentando una forza fisica e mentale che condiziona tutto il gameplay.

Alle porte del piano spirituale.

Kena è agile, veloce, superando con spiccato atletismo platforming e arrampicate ma sa anche combattere con savoir-faire, istruita alle arti marziali fin da bambina, di generazione in generazione, esaltata dalla scelta di uno schema di controllo immediatamente riconoscibile, pret-a-porter, che permette al giocatore di entrare subito in sintonia con lei, sentirsi a proprio agio nel vestire i suoi panni, pronti come se fosse un seguito e non un primo capitolo. Infatti nonostnte la giovane età Ember Lab non ha voluto renderla protagonista di una storia di formazione, tanto che Bridge of Spirits inizia senza spiegare nulla del suo passato e del suo scopo, facendo intuire che si sia spinta in quelle terre in cerca di qualcosa ma lasciando l’argomento in sospeso, intimo, come guidata da forze ancestrali in un girovagare nomade, misterioso.

In questo mi ha ricordato un po’ Samus Aran che balza da un angolo all’altro della galassia seguendo le taglie sulle teste dei pirati spaziali o accettando qualche missione della Federazione, ritrovandosi poi fatalmente, inevitabilmente in situazioni ben più complesse del previsto, da risolvere facendo affidamento sulla propria impareggiabile forza. Il verde smeraldino delle foreste in cui echeggiano melodie tribali, quei profumi suggeriti, immaginati, la freschezza dei ruscelli che le attraversano vengono interrotte da radure bruciate in cui il colore scompare, impallidito davanti ad alberi contorti ricoperti di tumori fluorescenti, capaci di evocare dal terreno spiriti deviati, anticorpi, non-morti di corteccia marcia, putrescente, manifestazioni di una natura rabbiosa, decisa a non subire altri soprusi. Scontri fisici, muscolari, pericolosi dove si deve correre, saltare, schivare, proteggersi in una bolla di energia per poi contrattaccare con bastonate vibranti, godendo di animazioni toniche e di una costante pioggia di scintille, particelle, residui dei poteri che permeano fittissimi le arene.

La soddisfazione di purificare gli alberi corrotti è proporzionale all’esplosione di colore che la segue, ricordando il ritorno della pittura sulla carta di riso di Okami. Prendersi cura della natura è un concetto fondamentale dell’opera a livello filosofico e di gameplay.

Il combattimento in Kena è esorcismo, parte integrante di un rituale che si conclude (quasi) sempre con l’esplosione liberatoria del bulbo dei fiori corrotti, purificati dagli adorabili, pelosi e simpaticissimi Rot, restituendo bellezza e dignità all’ambiente lungo la strada per dare pace agli spiriti. Perché è anche la coerenza di fondo che regola il mondo a dare quel senso di fluidità e compiutezza nella progressione; la natura è causa stessa della morte di chi ci ritroveremo ad aiutare nel “passaggio”, gli uomini sono i responsabili di questa ribellione ambientale e noi in mezzo, aghi di una bilancia cosmica che ha bisogno di ritrovare equilibrio. Il concetto di rituale si riverbera per tutto il racconto, accompagnando una mitologia che fonde con estremo gusto scintoismo e superstizioni giapponesi con suggestioni tibetane e del sudest asiatico, creandoci intorno tutta una serie di gesti, usanze e costumi che raccontano perfettamente quella che è la cultura infusa nelle ambientazioni.

Una narrazione ambientale incredibilmente affascinante, dai tratti esoterici, assolutamente compiuta perché riesce a mettere il giocatore nella condizione di catalizzare tutti questi poteri, ricevendone energia, diventando tramite determinante per il destino di queste terre, responsabile e coinvolto. Una sensazione forte, tangibile, meravigliosa. Raccogliere tre oggetti per risvegliare i ricordi dello spirito errante, scoprirne la sua drammatica storia, meditare fino ad ascendere al piano spirituale; combatterne la rabbia, il rancore, il rimorso per poi liberarlo, riconciliarlo con un destino funesto e vederlo dissolversi con una serenità sincera, toccante. Accettazione, redenzione, riposo, al termine di battaglie intense, violente, coreografate in una danza di pattern straordinariamente ritmici, ipnotici. C’è così tanto cuore, così tanta bellezza in questo loop di gameplay, totalmente sciolto nell’esperienza generale dove il rito non può variare (la ricerca dei tre oggetti, la boss fight ecc) ma ad evolvere insieme ai poteri di Kena sono le modalità per portarlo a compimento, scandendo il percorso con intriganti unicità di design, inserendo al momento giusto nuove entità da combattere, lasciando sempre il tempo per rallentare, passeggiare, riflettere. Eliminando intrusioni dissonanti come side-quest inutili, acqua per allungare il vino di un’esperienza inebriante, scegliendo di tenere aperta solo una sotto-trama opzionale, quella che riguarda la purificazione del pittoresco e maledetto villaggio che fa da hub ludo-narrativo per l’intera opera. Dieci ore di pura intensità.

Il simbolismo è ovunque in Kena, diventando fondamentale nei momenti più importanti. Dagli oggetti che servono per risvegliare la coscienza di uno spirito alla maschera che lo rappresenta, passando per quelli nascosti nell’ambiente, tutto ha un significato preciso.

E le sue dimensioni perfette hanno permesso alla direzione artistica di esplodere con una bellezza che si avvicina in scioltezza a quella delle produzioni Sony per PlayStation 5. Non c’è un singolo angolino che non venga voglia di fotografare, ammirare, contemplare in tranquillità. Ora una costruzione particolarmente scenografica, una cascata, un laghetto cristallino, antiche statue, suggestivi templi, caverne illuminate di un blu splendente, boschi dalle cui fronde filtrano raggi di luce che sembra di poter toccare, arrivando a momenti più astratti quando si passa alla dimensione spirituale, con quella sensazione di sospensione irreale, soffusa. Insensibile allo scorrere del tempo come una colonna sonora pazzesca, tribale, sacra e arcaica, ispirata alle composizioni del gruppo tradizionale balinese Gamelan Çudamani, la cui direttrice Emiko Saraswati Susilo ha accettato di collaborare con Ember Lab, assistendo Jason Gallaty nella registrazione. Sonorità ricche, intarsiate, persistenti, tanto da non aver bisogno di una voce narrante, superflua quando la musica è capace di descrivere così dettagliatamente la mitologia di un mondo che sembra vivere anche al di fuori del “gioco”, diventando cultura a tutti gli effetti.

Uno dei miei scorci preferiti del villaggio e l’irresistibile simpatia dei Rot, abbigliati con cappelli esilaranti, per far capire che anche i collezionabili li hanno studiati bene!

Kena: Bridge of Spirits è un percorso di ricongiungimento, comprensione e ricerca della pace interiore che riesce ad arrivare, colpire, restare con una facilità disarmante, dimostrando ancora una volta che l’essenziale, il riciclo e la reinterpretazione, nelle mani e nelle teste giuste, sono gli ingredienti fondamentali di opere di genere indimenticabili.