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Killing Bites ti parcheggia le zampe in faccia

Mi ricordo, sì, io mi ricordo. Correva l’anno 1997, e mentre nel giro del dueddì Kyo Kusanagi e compagni stavano finendo di sfabbricare di legnate gli ultimi discendenti di Orochi, altrove la sfacciata Hudson Soft, dopo aver fatto ubriacare Tekken e averlo spedito a letto con Altered Beast, buttava nella mischia dei rullakartoni treddì Bloody Roar.

Furry di menare

In realtà, io giocai al secondo capitolo, e ricordo che al tempo la commistione tra picchiaduro mediamente tecnico e gimmick “SNK like” che, attraverso l’apposita barra di furia animale, agevolava la trasformazione in furry di menare, mi garbò al punto da perdonare al gioco la relativa arretratezza rispetto ai più blasonati concorrenti.

Due decenni dopo, quando inciampo in Killing Bites, la prima cosa che penso è: “questi hanno fatto l’anime non ufficiale di Bloody Roar!”.

Ah no?

Dal contesto generale - le corporazioni che decidono il futuro dell’umanità sperimentando sulla “animalizzazione” (anzi theriantropizzazione) dell’uomo, scommettendo su quale dei loro esperimenti sopravviverà attraverso una selezione naturale a suon di sberle - fino ai personaggi e alle tecniche specifiche, le similitudini sono moltissime.

Intermezzo: 26 anni e non sentirli

Se tuttavia consideriamo le trasposizioni di picchiaduro in anime, Street Fighter II: The Animated Movie è venuto fuori bene, a differenza della serie noiosa come la compilazione del 730; Virtua Fighter è ancora ancora decente mentre i Fatal Fury restano praticamente pornografici. Quindi, per fortuna, tra Bloody Roar e Killing Bites sussistono anche molte e fondamentali differenze.

Nella trama del titolo di Hudson Soft, il trend telenovelistico che era solito insaporire i picchiapicchia dell’epoca, tipicamente farciti di poteri occulti, saghe finanziarie e intrecci parentali, era niente di più che una speziatura.
In Killing Bites l’alternanza tra le arene dove i personaggi si affrontano con le migliori intenzioni di farsi a pezzi e il palco da cui l’élite della finanza assiste eccitata tanto allo scatenarsi di istinti primordiali, quanto alla partita a scacchi portata avanti dietro le quinte tra quattro zaibatsu (di cui una chiamata come la realmente esistita/esistente Sumitomo) per il controllo della tecnologia di avanzamento della razza umana è, invece, il primo pilastro della narrazione.
Questo senza mai nascondere di essere uno di quegli anime che mostrano le protagoniste femminili per la maggior parte del tempo seminude, nude, e/o in situazioni che indubbiamente appellano a vari feticismi.

Ah, no?

Apparentemente una soluzione molto comoda per raccogliere spettatori: nonostante la donna guerriera sia molto più radicata di quanto si pensi nella narrativa e nella storia del Giappone, l’anime d’azione è estremamente “maschiocentrico” sia come protagonismo che come target di riferimento. E’ un mercato in cui non si contano gli anime a base di donne di menare che o mancano della più basilare coerenza drammatica (Ikkitousen), o la buttano gioiosamente in caciara (Maji-de watashi-ni koi shinasai!); oppure ancora, riducono il cast femminile a puro harem adorante del maschio di turno (Hyakka Ryouran Samurai Girls ) e/o fabbrica di scenette omoerotiche, fino a diventare un vero e proprio insulto per i neuroni dello spettatore prima ancora che verso il genere femminile (Infinite Stratos, Hundreds, Kampfer, Queen’s Blade, Valkirye Drive, la lista è infinita, e me li sono guardati tutti, TUTTI; mannaggia a me e a chi non mi ci manda!).

Ma a sorpresa, in questo panorama viziato, come e più di Cross Ange, Killing Bites si permette l’ulteriore prova di forza di non mancare di rispetto alle sue protagoniste. Nude, seminude e in situazioni che appellano ai vari feticismi, prima di tutto le donne di menare qui effettivamente menano e vengono menate. Con imparziale indifferenza al genere e coerentemente alle loro personalità, motivazioni e storie personali, spesso poco edificanti e positive.

Edificante e positiva

Infatti, altro aspetto della narrazione di Killing Bites che lo classifica come seinen al netto del tema shonen, è la difficoltà di imbattersi in personaggi “buoni”. La protagonista, Hitomi Uzaki, è una sorta di missile teleguidato mossa in pari misura tanto dalla pulsione quasi voluttuosa a sfoderare le zanne quanto dal desiderio di compiacere il Dottor Shido, ambiguo ricercatore di punta negli studi sulla creazione dei theriantropi. Il protagonista Yuya Nomoto, invece, è una nullità coinvolta in un gioco più grande di lui, e sebbene gli venga occasionalmente concesso di mostrare un buon carattere, in nessun momento ci viene taciuto che è un mediocre buono solo a farsi trascinare dagli eventi.

Tra gli antagonisti, tra cui figurano assassine della mafia, stupratori, capibanda, persino i personaggi “onorevoli” sono comunque degli egocentrici spinti dal desiderio di primeggiare. Si salvano giusto i due improbabili alleati di Hitomi nella battaglia: un bonaccione sovrappeso e una coniglietta tanto adorabile quanto codarda.

E’ abbastanza evidente, insomma, che il focus della narrazione non è far affrontare nell’arena chissà quali grandi ideali ma, molto più banalmente, mostrare quanto la battaglia tiri fuori la personalità dei personaggi. La loro natura più profonda.

E proprio la natura è, infine, l’ultimo pilastro di questo inaspettato successo. Shinya Murata, sceneggiatore del manga da cui l’anime è tratto con una fedeltà al limite della copia 1:1, con un approccio a metà tra i documentari della BBC e un trollone maledetto, lega indissolubilmente le motivazioni, le pulsioni, le azioni e reazioni e, ovviamente, le tecniche di combattimento dei theriantropi a mille trivia noti e meno noti legati alla loro forma animale.

Sorprende e sommerge con tali e tante nozioni ad-hoc la sospensione di incredulità dello spettatore fino a farle accettare il fatto che una ragazzina muscolosa con i geni di un ratele tenga testa a massicci uomini-leone, tigre, ghepardo, cobra e altre mezzebestie in odore di MACCOSA!.

Fedeli alla loro natura

A portare in scena quella che è, casomai non fossi stato abbastanza chiaro, una solida e coerente narrazione di menare, è un’animazione professionale che trasferisce il tratto del disegnatore del manga omonimo, Kazasa Sumita, come carta copiativa, e non si fa problemi a sacrificare almeno un po’ la perfezione estetica delle protagoniste alla loro credibilità atletica o, detta in termini meno edulcorati, alla loro voglia di strappare arti e azzannare gole. Credibilità che viene resa ulteriormente tangibile dal solito cast di ottimi professionisti del doppiaggio, con menzione particolare per Sora Amamiya, giovane star capace di spaziare da ruoli da tenera ragazzina (Isshukan Friends) ad altri di feroce assassina (Akame ga kill), e perfetta, dunque, per il carattere della protagonista.

Poco da dire sulla colonna sonora, con la ending rockettosa e mediamente ignorante, e una opening che viaggia tra l’irritante e il dimenticabile.

A posto così, non tutte le ciambelle vengono col buco.

Trivia: costei è Inui Pure, la protagonista del secondo arco narrativo del manga. Lo sceneggiatore è un meraviglioso trollone.

Mentre la serie manga, ingiustamente ignorata dalle nostre parti, è ancora in produzione in Giappone, con un secondo arco narrativo che spacca (soprattutto con il primo) e mostra il discreto manico di Shunja Murata, l’anime lo trovate su Amazon Prime Video sottotitolato e, se come me rispettate e apprezzate le donne di menare, non potete mancarlo.