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La città verrà distrutta all’alba: un’altra critica di George A. Romero

Negherei l’evidenza se vi dicessi che George A. Romero non è stato protagonista della nascita del mio pensiero critico, quel pensiero che oggi perlopiù manca e che, al netto degli ideologismi, risulta fondamentale in una società sempre più patinata e orientata verso politiche freneticamente consumistiche. Tuttavia non è di Zombi - il film che ha discusso maggiormente il tema sopracitato - che andremo a parlare, bensì di un lungometraggio scritto e diretto cinque anni prima: The Crazies, da noi noto con l’altisonante titolo di La città verrà distrutta all’alba.

Ho sempre considerato Romero il Ken Loach del cinema di genere, ed è innegabile considerando la fibra di ogni suo film. Tuttavia, i temi d’impegno civile – seppur spesso congrui fra loro – vanno maggiormente ricercati nelle reazioni sociali del relativo periodo storico: se con Il giorno degli zombi si volgeva lo sguardo a Reagan e alle sue politiche, in particolare quelle militariste, con La città verrà distrutta all’alba la critica è maggiormente orientata verso la sfiducia popolare nei confronti delle autorità governative, nonché l’eccesso di autoritarismo – sempre troppo fascista – da parte dei militari. Romero confeziona un diorama urbano in cui osserviamo una totale prevaricazione dei diritti fondamentali del cittadino, dove l’intero apparato militare viene eletto a giudice, giuria e boia. Ogni decisione avviene attraverso la loro giurisdizione; imponendo, arrestando e sì, anche uccidendo.

La storia, per ovvie ragioni stilistiche, prende piede in campagna, in quella che noi italiani definiremmo “provincia”: anonima e piccola. La scelta non è naturalmente fortuita. Romero trasporta l’orrore laddove non si credeva possibile potesse arrivare, fuori dalle città. Fuori dallo sguardo frenetico della persona cosmopolita. Siamo in Pennsylvania, a Evans City, una zona di agricoltori dove in apertura assistiamo al raptus di un uomo intento a spaccare e dar fuoco a la qualunque, il tutto in una veste isterica che farà subito intendere verso quale direzione procederà il film.

Un trasporto aereo militare contenente un aggressivo agente biologico noto come Trixie cade nei pressi della cittadina, contaminandone casualmente le falde acquifere. Il perfetto ricettacolo di diffusione; il patogeno (non è mai troppo chiaro se si tratti di un virus o un batterio) causa una progressiva psicosi con risvolti di estrema violenza. La risposta del governo è perentoria: la città viene isolata e cinturata, le comunicazioni interrotte e la popolazione confinata; e come se ciò non risultasse già sufficientemente drastico, si avalla l’ordine di far decollare un B-52 come extrema ratio nucleare qualora il contenimento dovesse fallire.

In città la situazione precipita: i militari cominciano a rastrellare casa per casa, entrando persino in contatto con il patogeno ormai già radicato fra i cittadini; peculiare la scena in cui un’anziana uccide un militare con un ferro da maglia. Mentre la follia dilaga, i protagonisti si trovano costretti a un’esasperante fuga con il timore sempre crescente dei militari prima, e del virus poi, quando il dubbio di essere infetti comincia a insinuarsi nel piccolo gruppo; il Trixie resta perlopiù ambiguo per l’intera durata del film, eccezion fatta per alcune delucidazioni che ci vengono fornite più o meno sin da subito: in parole povere, se non ti ammazza dopo qualche giorno, ti trasforma in un pazzo irreversibile. Pare manifestarsi dapprima con una risata sommessa, poi attraverso un malessere generale e soltanto dopo sfocia in un’insania omicida.

I contorni della città si fanno nuovamente horror con il calare della notte. La regia di Romero, qui di mestiere, appare essenziale e diretta, con continui stacchi di montaggio utili a definire l’azione messa in scena. In particolare, superata la metà del film, gli attriti fra il gruppo di fuggiaschi e i militari si intensificano, soprattutto quando appare palese il contagio di alcuni di loro.

Ancora una volta l’azione del film muta, non più proiettata verso l’esterno, ma piuttosto verso l’interno; la paura diventa l’emozione dominante con un Clank (il coprotagonista) sempre più pericoloso e definito da costanti aumenti d’ira e follia. Sempre in questa cornice assistiamo a un aumento della decadenza che investe alcuni personaggi, come l’uomo iperprotettivo nei confronti della figlia adolescente (presumibilmente infetta), che finisce per volerne abusare sessualmente. Non è facile a questo punto comprendere a pieno le responsabilità del patogeno: è il virus o il decorso psicotico che la situazione inevitabilmente genera?

L’atto finale del film appare come uno dei momenti più cinetici del film, con una serie di climax che portano lo spettatore a voler urlare attraverso lo schermo; come quando l’unico ricercatore del programma, armato della sola scoperta che potrebbe risolvere pacificamente il dramma, viene scambiato ignorantemente per un autoctono, e per questo arrestato.

Come accennavo nell’introduzione, con La città verrà distrutta all’alba Romero punta coscientemente il dito contro il governo americano. Le politiche militariste spostate da Dem e Repubblicani per l’intero secondo dopoguerra, dapprima in Corea e poi in Vietnam – l’immagine più significativa del film è indicata nel prete che s’immola con fuoco e benzina richiamando Thích Quảng Đức – e, in particolar modo, le politiche pseudo naziste di Nixon oltre alla suddetta realpolitik di Kissinger.

Il finale del film, altamente presumibile, dove veniamo a conoscenza della propagazione del patogeno oltre il contenimento, e quindi del ripetersi di ogni cosa, mostra anche una visione altamente incompetente dell’intero apparato militare, più volte incapace non solo di mantenere sotto controllo la situazione, ma anche di risolvere tecnicamente il problema.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle città di paura, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.