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La mia sui Ghost in The Shell animati

Con gli anime, devo ammettere, ho sempre avuto un rapporto di amore e odio. Alcuni li ho amati all’inverosimile, altri, magari anche idolatrati dal pubblico, hanno suscitato in me sentimenti molto più freddi, se non più vicini al disgusto. I due Ghost in The Shell di Mamoru Oshii li ho visti quindi, più che come un appassionato di animazione giapponese, come un appassionato di fantascienza e cyberpunk.

Ghost in the Shell narra le avventure di una cyborg alle dipendenze di una divisione speciale della polizia giapponese. Motoko Kusanagi, AKA “Il Maggiore”, presta le sue notevoli capacità fisiche alla lotta contro il crimine, coadiuvandole anche con una notevole abilità nell’hacking di sistemi informatici e cervelli cibernetici. Ovviamente, dato che stiamo parlando di un cartone giapponese, è anche una gran gnocca, ma questo ha più rilevanza nel fumetto e nella serie Stand Alone Complex che non nei film di Oshii.

La realtà dipinta nel mondo di Ghost in The Shell non si discosta molto dalla distopia tecnologica che spesso e volentieri accompagna mano nella mano le produzioni cyberpunk. Il mondo ha raggiunto livelli estremamente avanzati ma povertà e disperazione esistono anche più di quanto non esistano al giorno d’oggi, con potenziamenti cibernetici e armi estremamente potenti, che sembrano usati più ai danni dei cittadini da corporazioni e criminali che non a loro favore.

La particolarità dei due lungometraggi animati di Oshii, però, non è tanto la loro abilità nel creare un’ambientazione cyberpunk credibile e ben fatta, quanto di inserire in essa questioni più o meno filosofiche, che hanno una loro non secondaria rilevanza. Può una macchina avere un’anima? E quanto si può perdere del proprio corpo, sostituendolo con parti meccaniche, prima di non potersi più definire umani?

Queste riflessioni vengono ulteriormente espanse anche nella serie animata Stand Alone Complex, in cui dei tank aracnoformi, che rispondono al nome di Tachikoma, si sviluppano lentamente dall’essere dei mezzi di combattimento autonomi a delle intelligenze artificiali pienamente sviluppate, capaci di prendere decisioni autonome a tutti gli effetti. Lo sviluppo del loro “ghost”, assieme al modo in cui vengono trattati dai dirigenti della polizia, è fra i passaggi più toccanti ed emotivamente riusciti della serie.

L’altra caratteristica predominante di Ghost in The Shell è certamente legata alla natura intricata della trama. Fra tradimenti, doppi giochi, realtà artificiali spacciate per vere diventa spesso complesso seguire lo svolgersi degli eventi e lo spettatore deve necessariamente prestare molta attenzione a quanto accada. Non che questo sia di per se un difetto, anzi.

In linea generale, ho sempre trovato Ghost in The Shell una fra le migliori produzioni nipponiche, sicuramente fra le mie preferite, anche se questo non vuol dire che non veda in essa più di un difetto. Per esempio, non ho apprezzato il finale del primo film, preferendo di gran lunga lo sviluppo del personaggio del Maggiore presente nella serie animata, ed entrambi i film di Oshii, talvolta, si perdono in discussioni che in una produzione occidentale verrebbero lasciate sottintese. La consolazione è che non si vedono personaggi perdersi in disquisizioni filosofiche ed emotive durante un combattimento, e non capita di vedere sentimentalismi da adolescenti in personaggi che di adolescente non dovrebbero avere più niente. Considerata la media degli anime, lo vedo come un mezzo miracolo.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ad Alita e alla fantascienza giapponese moderna, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.