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La realtà virtuale è morta: viva la realtà!

Di recente ho avuto la possibilità di giocare a Moss: Book 2. Titolo di cui conoscevo l’esistenza ma che non mi aspettavo di voler giocare. Questa, in realtà, sarebbe dovuta essere la sua recensione, ma ci sarebbe stato probabilmente poco da dire. E questo è il motivo che mi ha portato a fare una riflessione personale (e quindi un po’ superficiale) su quella che, per un paio d’anni, è stata la mia forma preferita di intrattenimento digitale: la realtà virtuale. Lo strumento che mi ha aiutato a fuggire di casa quando la pandemia mi ha isolato dagli affetti familiari; quella stessa tecnologia che, prima che il mondo cambiasse, mi aveva permesso di fare l’imprenditore. Ciononostante, i visori di casa stanno prendendo polvere e quelli dell’ufficio, dopo il trasloco, non sono più usciti dagli scatoloni…

Poi è arrivato Moss: Book 2. Il primo mi è piaciuto davvero tanto: atmosfera da favola, scenografie impeccabili, animazioni adorabili e una discreta curva di difficoltà con meccaniche di gioco che reggono l’intera durata dell’esperienza (qui, nel caso, trovate la recensione). Esperienza che, al tempo, sembrava già completa in sé. Ma forse Poliarc ha altro da mostrare, mi sono detto. Qualcosa che ai tempi, per mancanza di budget, tempo o competenza ha tenuto nel cassetto… .

Senza indugio ho tolto la polvere, ho pulito le lenti e mi sono messo a giocare. Solo allora ho realizzato: Moss: Book 2 è il primo gioco in VR che è il seguito di qualcosa che ho già giocato in VR!

Non è una cosa da poco. Forse è addirittura traguardo.

Un seguito, wow!

Di già?!

Peccato che, dopo un paio d’ore (ma anche prima) suoni come una roba del tipo: “non è che abbiamo veramente qualcosa di nuovo da dire; non c’è più bisogno di sperimentare, no? Non era questo quello che volevi? Quindi eccotene un’altra porzione…”

La mia riflessione nasce proprio da questa considerazione: Moss: Book 2 è un titolo in VR davvero competente e una produzione più rifinita della prima sotto ogni aspetto, ricca di dettagli, animazioni e accorgimenti tecnici: questo è evidente. È anche molto più lunga, quasi il doppio.

Ma non è altrettanto interessante. Fine della recensione.

Crea, suo malgrado, quel pericoloso spartiacque tra il “sense of wonder” a cui mi avevano abituato i titoli in VR fino a qualche tempo fa e il “more of the same” che affligge altri formati videoludici già consolidati.

Fino a Moss: Book 2, ogni nuovo gioco provato in VR ha rappresentato per me l’ingresso in un’inedita dimensione di intrattenimento: un nuovo mondo. Con nuove leggi fisiche, nuovi sistemi di movimento e di interazione e, soprattutto, un mondo da guardare con nuovi occhi.

Tuttavia, ad eccezione di un paio di esempi (Beat Saber e Half-Life: Alyx, forse) nessun’opera si è mai rivelata finora la killer application definitiva, quella che mi ha fatto dire: “non ho bisogno d’altro per il mio intrattenimento”. Chi ha detto Gorilla Tag? Ma dai, non scherziamo…

Così, un po’ alla volta, ma senza rendermene conto, gli intervalli di tempo tra una sessione e l’altra con il visore in testa si sono allungati. In mezzo ci sono finite tante altre forme di svago, Xbox Game Pass su tutte – con il suo catalogo sconfinato immediatamente accessibile, e poi la “roba seria” tipo Elden Ring (che non è piaciuto a Vito).

E mentre aspettavi il ritorno di From Software, a cosa potevi giocare in VR? Ancora un round a Beat Saber o a Gorilla Tag... Perché la PS4 era già nel cassetto e ti sei sempre scordato di chiedere a Sony l’accrocchio per far funzionare il visore sulla PS5. Vabbe’ per fortuna arriva PSVR 2… Non ancora, rimandata al 2023. Forse.

Abituato alle novità, al fatto che ogni uscita sia un’incognita e spesso una sorpresa (non sempre significativa, ma comunque informativa, soprattutto per il tuo mestiere) scopri che i titoli che stai aspettando cominciano ad avere in coda il numero 2… .

È un segnale. È il segnale che il mercato è ormai consolidato, che gli standard sono stati definiti e il nuovo mondo è stato completamente mappato. Ma siamo sicuri che sia davvero così?

Il 1° agosto saranno passati dieci anni dalla campagna Kickstarter che ha dato il via alla prima versione consumer di Oculus, rilanciando la Realtà Virtuale in un contesto di curioso scetticismo.

Ricordo ancora distintamente quando in edicola ho acquistato il primo numero di Virtual, rivista italiana dedicata a realtà virtuale e immagini di sintesi. Era l’autunno del 1993… Ma già nel 1998 la VR era passata di moda perché da un paio d’anni Internet aveva attirato su di sé l’attenzione del mondo intero. Anche Virtual nel 1998 aveva chiuso i battenti.

Scomodo volentieri Albert Einstein per dire che senza Palmer Luckey la VR non avrebbe mai potuto godere di un secondo tempo. Allora, all’inizio degli anni ’90, la tecnologia non era in grado di correre alla stessa velocità dell’immaginazione. Questo paradigma, però, sembra oggi essere invertito: è la nostra mente a non tenere il passo dello sviluppo tecnologico… La nuova VR ci ha mostrato i limiti di questa interfaccia, a cominciare dalla chinetosi (che non puoi eliminare perché, a livello fisiologico, quando sei fermo e il tuo cervello percepisce il movimento, la prima reazione è pensare all’avvelenamento e come fare per liberarsene. Pertanto vai di teletrasporto).

Tuttavia, da quando Zuckerberg ha acquistato Oculus, ogni due anni sento ripetere che la VR è a un passo da conquistare il mondo del business e dell’intrattenimento. Quando è uscito Ready Player One di Spielberg, ci ho quasi creduto. Ora che la parola sulla bocca di tutti è “metaverso”, non ho più voglia di crederci.

La pandemia stessa ha offerto alla VR l’opportunità di diventare una forma di escapismo privilegiata. Fortunatamente l’uomo della strada ha preferito tornare a mettere il naso fuori di casa e lo stesso dicasi per alcuni nerd come il sottoscritto.

Però, un po’ ovunque leggi del fantastico Natale di Quest 2. Pare abbia venduto sfracelli. Ma non fra le tue conoscenze. E Meta non ti dice quanti visori abbia effettivamente piazzato da quando c’è mercato. Più di 10 milioni, pare, ma che insieme ai 5 milioni di PSVR farebbero poco più di quanto ha venduto Wii U nei suoi 5 anni di vita. Sono stime. Certo c’è anche il mercato PC VR da mettere in conto, ma i numeri non sono poi così significativi e, soprattutto, troppo frammentati.

Lato business, la necessità, palesata con la pandemia, di igienizzare costantemente i visori e avere mascherine apposite ad ogni cambio ha reso meno immediato l’utilizzo in pubblico e, a questo, si aggiunge la diffidenza degli utenti, per molti dei quali è svanito anche l’effetto novità.

E poi ci sono i fili (se ci sono), il peso, l’affaticamento in caso di uso prolungato, problemi di propriocettività e di spazio richiesto per muoversi con agio, o la necessità di avere un account facebook… Ostacoli facili da mettere in secondo piano per gli early adopters ma che rappresentano ancora uno scoglio per raggiungere la massa critica di utenti.

In più, nessuno si sente ancora cool con un visore in testa; anzi, tutti indistintamente appaiono più goffi e a disagio con quell’imbragatura per il capo che li disconnette dal mondo reale. E questo, un certo peso ce l’ha sulla nostra intelligenza sociale.

Tanti fattori, anche molto diversi tra loro che, uniti insieme, fanno capire come la strada per l’affermazione sia ancora lunga e lastricata di insidie, non solo dal punto di vista tecnologico.

È vero che una nuova generazione di visori sta per arrivare, più leggera e snella, con risoluzioni incredibili e nuove funzioni eccitanti come l’eye tracking, ma per avere una qualità dell’immagine che renda giustizia all’hardware su cui gira, PSVR 2 sarà ancora connessa con un cavo USB C e non potrà operare indipendentemente. Tutti quegli open world da centinaia di ore di gameplay che adoriamo non sono gestibili fisicamente con gli schermi sulla testa e per restare in contatto visivo con gli altri abbiamo fin troppi servizi (liberatemi da Zoom!).

Dopo dieci anni di sviluppi, senza il contributo dei pesi massimi del videogioco, quindi senza veri titoli AAA, abbiamo capito che non ci sarà un Big Bang ma il processo di affermazione della VR sarà graduale, un piccolo passo per volta, fra una nuova licenza musicale per Beat Saber e il capitolo 2 di un gioco che ha permesso al suo creatore di finanziare il seguito.

Perché quello che pochi ammettono è che questo mercato è ancora troppo piccolo e frammentato per tutti quelli che vogliono produrre contenuti. Sviluppare un videogioco costa. Costa molto più che girare un video a 360°. Il prezzo medio di vendita di queste esperienze e la base installata (frenato l’entusiasmo iniziale del pioniere) sono soddisfacenti solo per chi si trova in mano un improvviso blockbuster. Pochi publisher, quindi, finanziano oggi progetti in VR e lo fanno solo a colpo sicuro. Anche Reality Labs, la divisione che si occupa di AR e VR in Meta, è fortemente in perdita nonostante gli incrementi nelle vendite.

Il problema è che forse questa tecnologia non ha ancora un’identità ben definita: esperienza stand alone senza cavi (e senza pretese) o accessorio di lusso per giochi AAA? Da una parte Meta, finché il prezzo delle azioni tiene, e dall’altra Sony, che con la sua formula rischia una nuova PS Vita (ricordiamo che in passato, l’idea di una console portatile per giochi AAA ha dovuto cedere il passo alle curiose stramberie del 3DS Nintendo).

Due approcci completamente diversi che però beneficerebbero entrambi di un nuovo modello di business, auspicabilmente simile a quello di piattaforme in abbonamento come Netflix e Xbox Game Pass, data la durata e la tipologia delle esperienze offerte. Certo si tratta di un modello di business il cui costo ricadrebbe quasi interamente sui detentori della tecnologia ma sarebbe un incentivo anche per avvicinare i pionieri di questa nuova frontiera dell’intrattenimento. Perché, gira e rigira, è sempre la stessa storia: non è tanto il contenitore quanto il contenuto che determina il successo di una piattaforma.

Più idee, meno seguiti!

Ecco, l’ho detto. Ora posso tornare a giocare a Elden Ring.