Librodrome #77 – Orizzonti di Forza: l'autopista diventa autopia
Attenzione. Ogni due settimane, in questa rubrica si parla di cultura. Niente di strepitoso, o che ci farà mai vincere il Pulitzer, ma è meglio avvertire, perché sappiamo che siete persone impressionabili. E tratteremo anche dei libri. Sì, quelle cose che all’Ikea utilizzano per rendere più accattivanti le Billy. E anche le Expedit.
Orizzonti di Forza – Fenomenologia della guida videoludica è un volumetto brillante, un libriccino abbagliante, nonché il primo saggio di critica videoludica a esaminare il genere racing e, in particolare, il paradigmatico Forza Horizon. L’autore, Matteo "MBF" Bittanti, usa il gioco di corsa come filtro e metafora della contemporaneità in materia di politica, arte, economia e cultura.
"Questo libro è un trip mentale. La mia vera ambizione è esaminare l'automobile, il mito del ventesimo secolo, attraverso il filtro videoludico. Secondo Baudrillard (1968), 'L'automobile è un oggetto per eccellenza in quanto riassume tutti gli aspetti dell'analisi: l'astrazione di ogni fine pratico nella velocità, il prestigio, la connotazione formale, la connotazione tecnica, la differenziazione forzata, l'investimento appassionato, la proiezione fantasmatica'. Mi sono chiesto cosa succede quando l'oggetto per eccellenza si smaterializza, diventando un simulacro. Orizzonti di Forza fornisce una possibile risposta."
Il libro si articola in due sezioni - “America” e “Europa” - che corrispondono ai relativi itinerari, ovvero i due episodi di Forza Horizon prodotti da Microsoft Games Studios nel 2012 e 2014. In questo viaggio virtuale, Bittanti ha deciso di raccattare autostoppisti d'eccezione quali Marshall McLuhan e Paul Virilio, Chris Burden o Filippo Tommaso Marinetti.
Lo stile adottato è tutt'altro che accademico (Bittanti ha redatto le sue riflessioni "in forma episodica, nomadica, nelle fabbriche post-industriali di San Francisco altrimenti note come coffee house, dove un cappuccino costa cinque dollari, i turni di lavoro al laptop durano otto ore e i lamenti degli homeless che bivaccano sui marciapiedi sono coperti dalla musica lounge"), sempre rigoroso nelle fonti e rigoglioso di citazioni, assolutamente appassionante per la sensazione di continua scoperta che trasmette al lettore/guidatore pagina dopo pagina, curva dopo curva.
Nella prima parte yankee del volume, se ci si domanda qual è la relazione tra le aberrazioni del sistema americano (dove puoi essere un drogato, un alcolizzato o un violento, ma se non guidi, vuol dire che c'è qualcosa di profondamente sbagliato, il luogo in cui, più di ogni altro, l'auto è diventata il guscio protettivo e aggressivo dell'uomo) e i videogame, l'autore fornisce una risposta chiara: "L'Horizon Festival è, al tempo stesso, una competizione e una metafora dell'imperativo imprenditoriale, inteso come luogo in cui si realizza la maturazione dell'individuo, il raggiungimento del benessere materiale, il successo finanziario e il trionfo agonistico. Il player non è libero di scegliere, ma è prodotto dalla logica neoliberista che informa il game design. Come tale, è indotto ad accettare le Regole del Gioco ivi intese come modelli di funzionamento trascendentali, istruzioni assolute, non negoziabili né discutibili. […] Il giocatore non mette mai in discussione il sistema di valutazione, ma lo accetta perché obiettivo, imparziale, neutrale."
Si tratta di un lungo viaggio, come passeggeri o autisti (decidetelo voi), un attraversamento a tutta velocità - e senza paura di morire - degli iper-luoghi, passando per una fenomenologia della guida simulata, una teoria della spettralità videoludica, mezzi, messaggi, messaggeri o passeggeri. Si parla della falsa coscienza della società del controller e si viaggia fino in Italia, che sia con un paradossale Hummer H1 Alpha o una Cadillac Escalade 2.5 non fa differenza alcuna. O forse sì, e in tal caso sarebbe una differenza cruciale. E ancora, Drivatar e interpassività, fino all’arte della corsa, dove dall’autopista si giunge all’autopia.
E mentre il paesaggio di Horizon, incorniciato nello schermo del televisore, scorre, si trasforma, si deforma, riparte, accelera, carambola in incidenti che hanno del miracoloso e si consuma una "sorta di delirio cubista", il racing game di Playground Games svolge alla perfezione una cruciale funzione sociale: "Fornisce agli spossessati, ai precari, agli emarginati, agli esclusi, ai nuovi poveri l'illusione di una ricchezza simulacrale, da intendersi come mera anticipazione di una futura ricchezza materiale, virtualmente ottenibile nel frangente temporale di un domani non ben precisato, tuttavia situato nell'"orizzonte del possibile", l'orizzonte di Forza."
I frame al secondo aumentano, dai trenta del primo capitolo si passa ai sessanta del secondo, arrivando nel Bel Paese, affrontando il dilemma dell'inserimento del pachidermico Hummer ("… nella mitopoiesi dell'Hummer, Arnold Schwarzenegger, ex governatore repubblicano dello stato californiano nonché indefesso consumatore di anabolizzanti svolge il ruolo di demiurgo") o quello dell'Escalade, simbolo che certifica il successo dell'uomo di colore e il raggiungimento di una chimerica parità. Orizzonti di Forza è un pregevole strumento per ragionare sulla rilevanza culturale, ideologica ed estetica del racing gaming tout court, ormai solida parte costitutiva del tessuto connettivo della società contemporanea. Chi, in fondo, non sogna una Lamborghini scevra da bollo, assicurazione e pieno di carburante?
"Lo schermo e il parabrezza deflettono e riflettono, distorcono e distraggono. Allacciate le cinture di sicurezza" e accendete tutti i neuroni a vostra disposizione. Correre in auto, del resto, è una forma spettacolare di amnesia. O almeno così diceva Baudrillard.
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