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Limbo era un capolavoro e un gioco di merda | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Sentite, ora che sono passati dieci anni, le bocce sono ferme, ci abbiamo ragionato, abbiamo avuto un quasi-sequel che riprendeva e migliorava esponenzialmente le idee dell’originale, possiamo dire che Limbo era un po’ un gioco di merda?

Non picchiatemi! Non ce la fareste, sono grossissimo e cattivissimo. Non intendo dire che fosse brutto, anzi! Vi ricordate quando nel 2006, quindi quattro anni prima della sua uscita, uscì questo concept trailer?

Che roba pazzesca che era, eravamo pure nell’era pre-Braid e dunque pre-“se fai un platform 2D con uno stile un po’ originale e qualche idea innovativa ti copriamo di soldi” e già comunque si intuiva che questo Limbo prometteva grandi cose. Non vorrei arrivare a fare affermazioni assolutiste tipo che prima di Limbo una delle caratteristiche dei platform 2D era quella di essere coloratissimi e allegri oppure baroccamente violenti e in entrambi i casi pieni di dettagli e di opulenza visiva, come se l’evoluzione del genere post-Mario fosse stata più una questione di stile che di sostanza (con rarissime e malcagate eccezioni tipo il clamoroso And Yet It Moves), ma non c’è dubbio che già dalle prime immagini Limbo andasse a stuzzicare una certa voglia latente di minimalismo e di atmosfera costruita per sottrazione e si presentasse, dunque, come una rottura forte con il resto del panorama di un genere che andava sempre più riducendosi a “Super Mario Bros.”.

E poi era così CRUDELE! Un bambino indifeso e un ragno gigante, una povera farfalla impalata, tutta quella nebbia, quella paura, le animazioni del suddetto bambino morente... Inutile fare i superiori, quando Limbo uscì nel 2010 era una roba aliena ed era impossibile non rimanerne affascinati, a meno di non appartenere a quel gruppo di persone che schifano i platform e che nel tempo libero amano prendere a bastonate i cuccioli di foca. E cominciare a giocarlo non faceva che confermare le ottime impressioni date da trailer e materiali promozionali vari: quella sagoma senza lineamenti ma con gli occhi luminosi tipo uno dei bambini del Villaggio dei dannati di Carpenter, quelle animazioni così umane, il senso di fatica e di sbatta trasmesso dal dover controllare non un idraulico salterello ma un cinno un po’ sfigato, quei giochi di luci e ombre e sfocature e profondità di campo. Rinfrescatevi la memoria e ditemi se Limbo non ha i migliori cinque minuti iniziali che si possano chiedere a un gioco del genere.

E così arriviamo alla mia ferocissima affermazione iniziale che Limbo sia un po’ un gioco di merda. Quello che intendo dire è che sotto la patina scintillante (oddio, più che altro annebbiata e sfocata ma insomma) del puzzle-platform d’atmosfera si nascondevano gigantesche magagne di game design, la più grave di tutte la sua tendenza a prima ammazzarti e solo dopo spiegarti perché. Limbo era tutto un gioco di GOTCHA!, di segnali visivi di pericolo che diventano chiari solo dopo che ti hanno fatto fuori; il trial and error all’ennesima potenza, con trappole ragni cattivi e altri agenti che trasmettono il morbo della morte che è sostanzialmente impossibile superare al primo tentativo e senza averci prima sbattuto contro la faccia. Un gioco dove morire è necessario per procedere nel senso che la morte, e il ricominciare dal checkpoint precedente, diventano le uniche chiavi di lettura possibili per gli enigmi che vengono presentati. Che per carità, potrebbe anche essere una scelta legittima, ci sono un sacco di platform che usano questi trucchetti per far infuriare il giocatore e provocare, quindi, una reazione emotiva di qualche tipo. Pensate solo a I Wanna Be The Guy, uscito tre anni prima e interamente costruito sul concetto di imparare come procedere morendo male e in maniere inaspettate.

Il punto è che Limbo non aveva alcun bisogno di comportarsi così, e anzi la sua insistenza nell’insegnare al giocatore come procedere tramite morti a sorpresa e reset un po’ ammazzava il ritmo, e pure l’atmosfera. È difficile immergersi nelle pericolose avventure di un pupo indifeso quando chi lo controlla è il primo a non avere strumenti per distinguere un pezzo di sfondo da una trappola mortale, perché si finisce per concentrarsi sui dettagli e fare attenzione a ogni pixel invece di godersi le nebbie della foresta e i ragni della foresta e le foreste della foresta. Una sensazione, quella di venire strappati a forza dal racconto per concentrarsi sugli aspetti meccanici del gioco, amplificata con il passare delle ore di gioco (non molte): c’è un momento nel quale Limbo abbandona ogni pretesa di, chiamiamola così, naturalità dei suoi puzzle e delle sue trappole, e comincia a riempire lo schermo di laser colorati e lame rotanti, ed è lì che smette definitivamente di essere un gioco d’atmosfera per trasformare il suo protagonista in un Super Meat Boy con problemi di deambulazione.

C’è da dire che con ogni probabilità non farei tutte queste menate se sei anni dopo non fosse uscito Inside: stessa gente, stessa idea di fondo ma molta meno stronzaggine e più leggibilità istantanea. Inside è tutto quello che Limbo sarebbe potuto essere se Arnt Jensen non avesse avuto una gran voglia di fregare il giocatore e puntare il dito contro la sua ennesima morte ridendo di lui, ed è quindi un gioco che funziona molto meglio non solo in quanto tale, ma anche in quanto racconto visuale ricco d’atmosfera (è la quinta volta che uso questa parola nello stesso pezzo, chiedo scusa) e nel quale il gameplay è al servizio dell’immersione e non lavora attivamente per sottometterla. Il problema di Limbo è che Inside esiste e in retrospettiva un po’ lo svaluta, ne mette a nudo quei difetti che ai tempi del primo playthrough mi era più difficile identificare al di là di un vago senso di presa per il culo dopo l’ennesima morte non prevedibile.

Ecco cosa voglio dire quando parlo di “gioco di merda”: non un gioco brutto o fatto male, anzi, grazie al suo stile minimale e senza tempo e bla bla bla Limbo è ancora oggi una goduria da vedere e tutto sommato anche da giocare, e uno dei giochi più importanti per la rinascita del genere in tutte le sue declinazioni. Ma un gioco pezzo di merda, ecco, forse è questa la definizione corretta: non solo crudele (che va benissimo) ma inutilmente crudele, crudele per il sollazzo dell’autore più che del giocatore. Immaginatevi una buccia di banana mimetizzata con il marciapiede e Arnt Jensen nascosto dietro un muro che non vede l’ora di vedervi scivolare e battere il culo a terra: ecco, Limbo è anche questo, stronzo che non è altro.

Dopodiché, per carità, è ancora bellissimo e abbastanza breve da meritarsi un replay una volta ogni tot – non voglio certo levargli meriti o bocciarlo retroattivamente, sono un grande fan di Limbo, all’ultima festa di Halloween mi sono presentato vestito da ragno gigante. Ma qui siamo all’Ospizio, dove i vecchietti si lamentano biascicando bestemmie e rimpiangendo i bei tempi andati in cui se saltavi sopra un Goomba quello si appiattiva e moriva, quindi lasciatemi lanciare per un’ultima volta un’invettiva contro Limbo: capolavoro, ma anche gioco di merda. E Inside è meglio.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle esclusive, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.