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L’odio della periferia

L’odio nell’urlo della periferia che rimbalza tra le facciate delle popolari. Cemento grigio su cielo opaco, le uniche note di colore arrivano dai sorrisi di carta, strappati, sui manifesti delle ultime elezioni. Panorama urbano monocromatico in cui risaltano solo poche luci e tante ombre, contrasti, zone della metropoli senza saturazione, dove da piccoli ci hanno insegnato che “lì è pericoloso andare”. Ci sono neri, marocchini, zingari, lettere come chiodi che trafiggono le mani di Cristo e prendono la forma antropomorfa di spacciatori, assassini, mafiosi, lasciando stigmate sanguinanti. La città come una centrifuga che spinge costantemente ai margini chi arranca, mentre i politici li rassicurano con promesse di plastica, finte come le sciure del centro imbottite di botox, o li condannano con una citofonata in prima serata.

Negli occhi la sconfitta, tra i denti la rabbia, i sogni spenti come una sigaretta sul pavimento di un gelido monolocale occupato, una siringa nel braccio e la faccia affogata in una pozza di vomito. Costretti a interpretare quella parte che la società ha scritto per loro, comparse in un noir, vittime e carnefici. Le volanti che girano per il quartiere, le mani infilate in fondo alle tasche del piumino, incontri dietro saracinesche abbassate a metà, bambini che giocano nel parchetto senza curarsi del futuro, tra l’erba scintillanti resti di carta stagnola. Fin qui tutto bene, il cranio non ha ancora toccato l’asfalto. Cinquanta, quaranta, trenta… .

L’assenza di colori diventa da una parte una questione emotiva, dall’altra un modo di esaltare i panorami suburbani. Eccezionale.

Da quando Mathieu Kassovitz ha girato L'odio, correva il 1995, non è cambiato niente. Che siano Corvetto, la banlieue parigina o Minneapolis. Polvere (da sparo) nascosta sotto al cemento, accumulata fin quando non esplode in proteste, rivolte di quartiere, vetrine infrante e molotov lanciate contro le camionette. La notte si tinge di fuoco, il silenzio viene lacerato da urla represse, la periferia diventa il centro.

Tra il fumo dei lacrimogeni e dei cassonetti in fiamme che sprigionano diossina nell’aria, geyser suburbani, il colpo di una pistola d’ordinanza. Abdel è a terra, ferito in una pozza di sangue, piombo che infetta la carne. Le voci rimbalzano mentre le sirene dell’ambulanza decretano la fine della partita. Noi non vediamo niente di tutto questo ma ce lo raccontano gli sguardi, le parole e il quartiere nel day after di una sommossa mai inquadrata dalle cineprese. Rifiuti e detriti a terra, una palestra bruciata, auto ribaltate, vetri, cordoni di poliziotti a presidiare il quadrilatero della banlieue, al cui interno la vita prosegue in attesa di notizie dall’ospedale, i pugni stretti e il passaparola, i cappucci alzati sopra la testa e l’adrenalina ad alta gradazione non ancora smaltita. Un DJ set al balcone, ballerini di breakdance negli scheletri di palazzi mai finiti, progetto mai inaugurato di un tranquillo quartiere residenziale per famiglie borghesi. Vivere alla giornata, fin qui ancora tutto bene. Vivere una giornata, quella di Vinz, Hubert e Said che passeggiano, si atteggiano, raccontandosi a vicenda le gesta della notte appena passata, poco più che ragazzi in costume da uomini, cazzari con un’idea folle per darsi l’illusione di avere un obiettivo, una prospettiva dove non ce ne sono: Se Abdel muore, uno sbirro muore. Vencinque, venti, quindici…

Kassovitz riesce a gestire tutte le scene con una mano eccezionale, senza risparmiare virtuosismi che diventano parte fondamentale del racconto. Infatti, ventisei anni ‘sto film non li dimostra neanche per sbaglio.

Neanche loro sembrano crederci davvero in quelle parole, nonostante Vinz (Vincent Cassel) abbia trovato una pistola persa da un policier negli scontri, nonostante l’odio. Ma tanto basta per dare una scossa, passare idealmente dall’altra parte del mirino, diventare davvero quello che l’opinione pubblica pensa di loro. Davanti allo specchio del bagno il ragazzo punta due dita davanti al suo riflesso, inebriato dall’arma e dal potere che trasmette, imitando Travis Bickle e assaporando quel momento di rivalsa contro il mondo, a un tiro di grilletto di distanza, sullo sfondo il poster di una spiaggia tropicale, il bianco e nero che la priva di ogni fascino, futuro. «Dici a me?! È con me che ce l’ha, coglione?!». In questa scena c’è tutto il disagio del personaggio, il suo e di chi vuole rappresentare nella realtà, la rabbia repressa di chi è costretto a bluffare per evitare l’ennesima umiliazione, indossando la maschera da duro in un teatro fatiscente. Caricatura di sé stesso, gangster wannabe in tuta di acetato.

Tutta la tensione crescente della pellicola non si gioca sulla sua reale pericolosità, ma sulla paura dello spettatore che possa fare davvero una cazzata, senza pensare, tirandosi dietro gli amici di una vita che cercano costantemente di farlo ragionare e tenerlo a bada. «Fin qui tutto bene» se lo ripete anche il pubblico tirando un sospiro di sollievo ad ogni cilindro vuoto di una pistola puntata alla tempia, roulette francese, mentre i frame scorrono inesorabili, ventiquattrore condensate in novantotto minuti.

Non è una citazione fine a sé stessa, da sempre certi personaggi diventano idoli di ragazzi cresciuti in contesti complicati, duri, cercando in loro la forza per emergere.

Dalla periferia all’epicentro, una Parigi per bene, elegante, che mette in risalto la loro inadeguatezza ed emarginazione. Urlano volgarità, si muovono con frenesia occupando tutto il marciapiede, mandando fuori giri la routine della “ville lumière”, attirando sguardi di disapprovazione e le attenzioni di una pattuglia, fasci in incognito che non aspettano altro che mettere le mani su ragazzotti che hanno osato uscire dal loro recinto per disturbare la quiete pubblica.

Qualche grammo d’erba in tasca è la scusa ideale per un pestaggio in nome della legge. Vinz scappa ma Hubert e Said vengono portati in commissariato, chiusi in uno stanzino e torturati, senza neanche la farsa di dover estorcere una confessione, puro sadismo davanti agli occhi bendati della giustizia. È quel tipo di ordine che chiediamo implicitamente quando votiamo certa gente che guarda a un passato nero con la nostalgia dei bei tempi andati, quando a decidere era qualcuno che faceva anche cose buone, creando aberrazioni nella popolazione come naziskin e neo-squadristi che si sentono vigilanti al servizio di un popolo che non prevede ebrei, africani o magrebini, come i protagonisti scelti da Kassovitz. Cani rabbiosi finché non vedono un revolver a pochi centimetri dalla fronte, capace di sciogliere anche le svastiche tatuate sul corpo, l’inchiostro che cola via insieme al sudore ghiacciato.

A Hubert c’è solo da volergli bene, per come riesce a sopportare gli altri due e per la caratura morale che dimostra in più di un’occasione. Ma tutti i personaggi sono scritti in maniera pazzesca.

Finalmente l’arma diventa utile a qualcosa, veicolare tutta la rabbia di Hubert, quello che dentro ha ancora una scintilla di luce, nonostante le botte, la palestra distrutta, il razzismo e aver sopportato Vinz e i suoi deliri per tutto il giorno; «Vuoi renderti utile all’umanità? Eh? Eh? È così? Poliziotti buoni ne trovi, ma un nazi per essere buono deve essere morto. Spara. Ammazzalo!». Ma l’odio è come se si fosse dissolto insieme alla sbruffonaggine, il colpo non parte, nemmeno alla notizia della morte di Abdel scatta la vendetta. Nella notte della capitale, senza treni per tornare a casa e senza luna per illuminarla, in cui anche la Tour Eiffel si spegne come a rendere omaggio al ragazzo ucciso, c’è spazio solo per una strana rassegnazione mentre l’alba sorge e l’asfalto si avvicina, le lancette che tornano lì dove avevano iniziato il loro giro, dopo aver subito pestaggi, assistito a sparatorie, tentato furti d’auto maldestri e approcci con ragazze di classe altrettanto fallimentari. La caduta che si avvicina all’atterraggio. Dieci, nove, otto, sette…

Un desiderio, una speranza, un’illusione. Il messaggio de La Haine è chiaro e non lascia scampo, ma la lotta deve continuare.

Sei del mattino. Fuori dalla stazione della metro l’aria frizzante accoglie i tre amici, sfogati, le menti più lucide, stanchi. In Vinz che porge la pistola a Hubert per farla sparire c’è un momento di crescita personale enorme: c’è quasi speranza. Said si mette a raccontare una barzelletta delle sue, una suora che viene scambiata per Batman o una roba del genere, una di quelle battute che fanno ridere più per come riesce a raccontarle che per la comicità in sé. Una volante sta facendo la sua ronda, li vede, si ferma. Sbirri di quartiere che conoscono bene i ragazzi e si ricordano dello screzio avuto con loro il giorno prima. Pistola in pugno per spaventarli, vederli sbiancare, farsela sotto.

Cinque, quattro, tre… Solo che un colpo parte davvero, dritto nel cervello di Vinz. Quel colpo che abbiamo avuto paura potesse sparare lui per tutto il racconto, quello che avrebbe rovinato la sua vita e spento quella di un altro uomo, se lo ritrova dritto in testa. Silenzio, gli occhi sbarrati del poliziotto, quelli iniettati di sangue di Hubert che corre, stringe la mano sul calcio del revolver e gliela punta in mezzo alle sopracciglia contratte in una smorfia innaturale. L’inquadratura si stringe sugli occhi di Said, chiusi come a voler fuggire, spegnere tutto, togliere il potere dell’immagine a quella situazione.

In un frame c’è tutta la disperazione di chi in un minuto ha perso tutto il poco che aveva.

Se non lo vedo non esiste, non sta succedendo. Due, uno…

Non esiste sicurezza per chi non può permettersela. Nascere emarginati è per molti come essere buttati da un palazzo appena nati, crescere nel vuoto cadendo senza conoscerne l’altezza, rupe Tarpea della diseguaglianza sociale. E alla fine rimane solo l’odio. Zero.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alla dimensione politica nei videogiochi (e non solo), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.