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Mace: The Dark Age e l’estate del 1997 | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Siamo ad agosto del 1997, in piena stagione estiva. In una di quelle località balneari del profondo Sud piene di gente di ogni tipo, dal milanese sempre con il cellulare in mano (stiamo parlando di quei cellulari da auto con antenna estraibile, che all’epoca avevano solo gli uomini d’affari o gente benestante) fino agli stranieri giunti dai luoghi più remoti e impensabili. Nel pomeriggio, mentre la maggior parte della gente si dedicava alla pennichella quotidiana prima di tornare in spiaggia, io me ne andavo per un paio d’ore in sala giochi, perché per me dormire in vacanza, a maggior ragione con il caldo bestiale che faceva, sembrava una cosa semplicemente assurda.

All’epoca le sale giochi, soprattutto nei luoghi di villeggiatura, erano ancora fiorenti, e in quelle di dimensioni medio grandi si poteva trovare di tutto, dagli ultimi arcade non ancora convertiti per le console fino ai grandi classici come Street Fighter II (qui trovate il Retroutcast di menare acconcio). Quella sala giochi di cui sto scrivendo viveva una doppia vita: tranquilla e semi deserta durante il giorno, e strabordante di persone la sera, solitamente coppiette, gruppi vari e anche tizi poco raccomandabili che sembravano usciti da una puntata di Sons of Anarchy. Il pomeriggio era quindi il momento ideale per godersi un po' di tranquillità senza veder magari comparire dal nulla la scritta “Here comes a new challenger”, che onestamente ho sempre detestato. In quella sala, eccezion fatta per un paio di racing games, i cabinati disponibili erano tutti picchiaduro. Fu così che conobbi Mace: The Dark Age.

Sviluppato dalla leggendaria Atari, Mace era uno di quei prodotti che, come tanti dell’epoca, non andava certo alla ricerca di una propria identità, cercava piuttosto di prendere il più possibile dai titoli di maggior successo per guadagnarsi un piccolo posto al sole in mezzo al mare magnum di picchiaduro presenti in quegli anni: il titolo prendeva i combattimenti all’arma bianca di Soul Blade, le esecuzioni finali e il sangue di Mortal Kombat e lo stile cupo di Killer Instinct, il tutto condito con una grafica per l’epoca assolutamente all’avanguardia. La trama, come di consueto, era una mera scusa per dare il via ai combattimenti: un oscuro stregone vuole impadronirsi del mondo grazie ad un’arma mistica che permette a chi la possiede di diventare immortale, e una sorta di confederazione delle principali nazioni invia i suoi migliori guerrieri per sconfiggere lo stregone e impadronirsi dell’arma. Ma, come insegna Highlander, ne resterà soltanto uno. Mace vedeva un roster iniziale di dieci combattenti, più sette segreti da sbloccare, tutti con stili e armi differenti: ninja, samurai, cavalieri e vichinghi, armati di scimitarre, asce, spadoni, pugnali, bastoni, katana e chi più ne ha più ne metta. Nonostante la varietà, anche Mace soffriva di un difetto tipico di molti picchiaduro dell’epoca: il bilanciamento fra i lottatori. Alcuni guerrieri erano palesemente più forti di altri, tanto bastava per spingermi a usare sempre i soliti due lottatori senza sprecare gettoni. In questo caso si trattava di Lord Deimos, un cavaliere infernale dalla statura imponente, che indossava un’armatura rossa e utilizzava uno spadone infuocato (la “spada de foco”, per utilizzare un termine caro al compianto Mario Brega) e Ragnar Bloodaxe, principe vichingo che cercava proprio Lord Deimos per vendicarsi della distruzione del suo villaggio da parte di quest’ultimo. Le arene erano ampie e dettagliate (in certi casi era possibile trovare anche delle “trappole” come pozze d’acido e lame rotanti, che potevano causare danni durante i combattimenti) e alcuni stage erano particolarmente evocativi (per esempio gli inferi dello stesso Lord Deimos, le segrete di The Executioner o il palazzo orientale di Namira), e, come scritto precedentemente, proprio come in Mortal Kombat era possibile, al termine dei due round, eliminare definitivamente l’avversario sconfitto in maniera brutale e sanguinosa, con smembramenti, scuoiamenti, decapitazioni e amenità varie. Per alleggerire un po' i toni violenti del titolo, fra i personaggi segreti sbloccabili erano presenti Pojo, una, ehm, gallina, e Ned The Janitor, un lottatore vestito da inserviente che combatteva a colpi di ramazza.

Mace fu per me davvero una bella sorpresa, tanto che ormai era diventata un’abitudine quotidiana spenderci qualche gettone, anche se non riuscii mai a battere il boss finale Asmodeus, finendo sempre per consolarmi con un cornetto al whisky, che all’epoca era un gelato solo per gente dai gusti raffinati. Proprio quell’estate, durante il viaggio di ritorno lessi sul numero settembrino di una delle riviste dell’epoca che Mace sarebbe stato convertito su console, pubblicato dall’ormai defunta Midway. Delle versioni annunciate alla fine l’unica ad arrivare nei negozi fu quella per Nintendo 64, e non avendo all’epoca la console, dovetti aspettare che un amico che invece l’aveva, comprasse il suddetto titolo, ovviamente su mio consiglio. Il mio secondo impatto con Mace fu però diverso dal primo, quasi totalmente: il picchiaduro veloce e fluido sul quale avevo speso una discreta quantità di gettoni quasi un anno prima era un pallido ricordo, in quanto la versione per N64 era di una lentezza allucinante e giocare a un titolo del genere con il pad “tricornuto” della console non era certo di grande aiuto. La stessa qualità grafica della versione arcade era andata in parte persa, probabilmente anche a causa della scellerata scelta di usare un supporto come la cartuccia, e alla fine riscoprire Mace in versione casalinga fu una mezza delusione, non per il gioco in sé che era ancora valido, quanto per una conversione fatta abbastanza con i piedi, tant’è che la cosa più riuscita di tutta l’operazione fu probabilmente la confezione cartonata del titolo, con Lord Deimos in primo piano e alle sue spalle le fiamme infernali. Se a questo aggiungiamo il fatto di essere uscito solo su N64, la conseguenza naturale fu un rapido oblio per il picchiaduro targato Atari, anche perché in un mercato talmente saturo di titoli di questo tipo, emergere dalla massa era davvero complicatissimo. La cosa buffa è il fatto che Mace, insieme a Fighter’s Destiny, è probabilmente il miglior picchiaduro dell’esiguo parco titoli della sfortunata console Nintendo.

A distanza di molti anni, proprio in occasione di questo pezzo, ho dato una rispolverata al gioco, e, anche se il peso del tempo si sente tanto graficamente quanto nei controlli, Mace rimane senz’altro un titolo da riscoprire, a maggior ragione per la scarsa fortuna che ebbe all’epoca. Uno di quei titoli che va ad unirsi ai vari Bloody Roar, Star Gladiators e altri che adesso non ricordo: troppo nella media per sfondare presso il grande pubblico, ma allo stesso tempo troppo sopra la media per essere dimenticati da chi mangiava pane, riviste e joypad.

Mace: The Dark Age è un titolo rimasto nella mia memoria soprattutto per quell’estate spensierata del ’97 fatta di cornetti e gettoni, e magari fra qualche tempo finirà in qualche collection di vecchi picchiaduro o in un ipotetico N64 mini. D’altronde, un paio di anni fa è tornato anche il cornetto al Whisky, non perdiamo mai la speranza.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vichinghi, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.