Moncage è Gorogoa condensato dentro un cubo
Se c'è una cosa su cui alcuni videogiochi recenti, in particolare i puzzle game, hanno puntato, è quella di spronare il giocatore a guardare le cose da un punto di vista differente. Fargli cambiare prospettiva, indurlo a percepire qualcosa di diverso da ciò che sembra ovvio e scontato, aiutarlo a creare dei collegamenti improbabili tra oggetti apparentemente incompatibili, farlo perdere dentro a delle meravigliose illusioni ottiche.
Ho giocato a diversi titoli che basano tutto il loro fascino su quanto appena detto. Mi vengono in mente l’ottimo Vignettes, il meno riuscito LOVE a puzzle box filled with stories, l'onirico Superliminal; ma indubbiamente l'esponente più importante è Gorogoa.
Scomodare l'opera prima di Jason Roberts, considerata da molti come uno dei puzzle game più geniali ed originali degli ultimi tempi, potrebbe sembrare un po' azzardato. Invece Moncage non sfigura affatto, perlomeno dal punto di vista dei raffinatissimi puzzle e della costruzione di un mondo credibile racchiuso nelle cinque facce di un cubo (una è quella su cui poggia e non è mai visibile). Più volte mi sono ritrovato ad esclamare “WTF” di fronte alle trovate degli sviluppatori di Optillusion. Certo, da un punto di vista puramente artistico Moncage non può assolutamente rivaleggiare con Gorogoa, ma può comunque essere apprezzato da un certo tipo di pubblico che ama un’esperienza breve ma intensa, stimolante e ricca di dettagli e con una delicata colonna sonora minimalista a cura di Berlinist (quelli di Gris, per intenderci).
Tutto parte da un cubo contenente una macchina fotografica. Questo oggetto ormai caduto in disuso non è una scelta casuale, in quanto viene usato come pretesto per dare il via ad una serie di ricordi. La macchina fotografica tornerà in moltissime occasioni, così come altri oggetti ricorrenti e metaforici: la farfalla, un orsetto, un faro, un papavero e la gabbia da cui il titolo. Ruotando il cubo si possono vedere le diverse facce che contengono alcuni diorami. Lo scopo del gioco è quello di collegare i diversi elementi di ciascuna faccia (apparentemente incompatibili) in modo da farli combaciare e sbloccare altri oggetti o nuovi diorami. Per aiutarci in questo difficile compito, alla pressione di un tasto si possono illuminare solo gli oggetti con i quali si può interagire. All’inizio si ha a che fare con due facce del cubo e pochi elementi accoppiabili ma, mano a mano che si avanza, le cose si complicano e ci si ritrova a dover combinare anche quattro facce contemporaneamente e in sequenza. Come dicevo, gli enigmi sono molto ben congegnati, anche se alcuni li ho trovati un po’ forzati e ho avuto bisogno di ricorrere agli aiuti. Il gioco è abbastanza clemente, in questo senso, perché dopo un po’ di tentativi a vuoto, ci propone di avvalerci dei suggerimenti, prima in maniera generica, poi più specifica, infine ci fa vedere il video di come risolvere l’enigma.
Moncage ha da dire qualcosa anche dal punto di vista narrativo. I protagonisti sono un padre e suo figlio, ma non ci sono parole a supportare la storia. È una narrazione ambientale che si muove parallelamente su due piani. Da una parte i diorami stessi, pur se disabitati, raccontano la storia attraverso le stanze e gli oggetti che di volta in volta animano le facce del cubo. Dall’altra, delle fotografie molto ben nascoste all’interno dei diorami ci faranno vedere i momenti salienti della vita dei due protagonisti, dall’infanzia giocosa ad un presente meno roseo, funestato da eventi bellici.
Uno dei diorami più belli, ad esempio, è a mio avviso quello del bar. Alle pareti ci sono appesi dei quadri con le illustrazioni di una mela, una rondine e poi un bersaglio delle freccette e tante bottiglie. Quando riusciamo a riempire un boccale di birra e ci guardiamo attraverso, la rondine si trasforma in un cacciabombardiere, la mela in una bomba, il bersaglio delle freccette in un tiro a segno e le bottiglie sono granate o proiettili. Davvero una trovata a effetto per condannare l’alcol, che invece di far dimenticare distorce, annebbia e porta a galla i traumi. Che la gabbia del titolo sia proprio una metafora del potere che alcuni ricordi negativi possono avere su di noi e dai quali non riusciamo a liberarci?
Come Gorogoa, Moncage si finisce in un paio d’ore o poco più, ma chiudendo un occhio sull’estetica low poly che non è proprio il massimo, rimane comunque un gioco che mette il giocatore di fronte ad alcuni enigmi molto ben strutturati e vuole raccontare una piccola storia familiare. Per me è promosso, non supererà il maestro ma ha imparato la lezione e l’ha fatta sua (vero Chicory?).