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In Memoria di Monolith Productions - Sul mio cuore spezzato non c'è brevetto

Il mondo dei videogiochi è spietato. Uno studio oggi può essere sinonimo di innovazione e rispetto, e domani dissolversi nel nulla, cancellato con un comunicato stampa e qualche riga di congedo. Ogni chiusura è un lutto, ma alcune chiusure fanno più male di altre. E questa mi ha fatto particolarmente male.

Questo articolo è stato ispirato da una discussione partita sullo slack di Outcast a seguito del diffondersi della notizia della chiusura dello studio. Il consenso generale sembrava essere, parafrasando, “Era lo studio del vorrei ma non posso. Un buono studio non proprio top” che secondo me è un giudizio un po’ riduttivo. So che questo mondo, e forse l’età, ci stanno rapidamente abituando a un certo cinismo di massa ma Monolith per me ha significato veramente tanto. E secondo me è stato importante per il mondo dei videogiochi anche più di quanto comunemente si ammetta.

Monolith non ha mai avuto il peso di id Software o il prestigio di Valve, ma chi conosce i videogiochi sa che la sua produzione è stata brillante e peculiare. Non faceva sempre centro, ma ogni volta cercava di reinventare qualcosa. E, nel panorama attuale fatto di giochi-cloni e produzioni che seguono fogli di calcolo aziendali più che idee, un’azienda così era davvero importante.

Blood puzzava di schifo e morte e sangue rancido e horror di terza fascia. Da bambino mi faceva una paura fottuta.

Lara Croft SCANSATE ché la mia prima vera cotta è stata Kate Archer.

La storia di Monolith parte con un titolo che più anni Novanta non si può: Blood. Un doom-clone (ora li chiamano boomer shooter, quando in realtà sarebbe meglio dire gen-X shooter? Millennial shooter? Vabbè…) frenetico, dissacrante e fuori di testa, che mescolava horror, western e trash in una brodaglia sanguinolenta di esplosioni e pixel. E poi venne No One Lives Forever, una meraviglia di stile e scrittura che giocava con i cliché di James Bond, regalandoci una fra le protagoniste più carismatiche e indimenticabili nella storia dei videogiochi: Kate Archer. Un gioco che oggi non si trova da nessuna parte, prigioniero di un incubo burocratico sui diritti (vedi mio articolo sulla pirateria). Perché non basta chiudere uno studio, bisogna anche cancellarne la memoria e pisciare sulla sua tomba non preservandone la storia.

Poi ancora F.E.A.R., uno sparatutto che ha ridefinito l’uso dell’intelligenza artificiale nei nemici, rendendoli capaci di adattarsi alle strategie dei giocatori, e che mescolava sparatorie spettacolari a un horror psicologico molto giapponese. Un’idea visionaria, un’esperienza che molti sviluppatori hanno provato a replicare senza mai riuscirci del tutto. Ma soprattutto un’esperienza a cui non sono mai riuscito a giocare per più di due ore perché a un certo punto finivo le mutande pulite.

Poi arrivò Condemned, un esperimento coraggioso che costringeva il giocatore a mettere via le pistole per affrontare rozzi criminali in risse corpo a corpo inquietanti e claustrofobiche. Un gioco che puzzava di sudore e disperazione, tanto quanto le ambientazioni marce in cui si svolgeva. Era grezzo, ma unico. Col senno di poi, il suo sistema di combattimento basato sull’improvvisazione è molto simile a quello implementato recentemente da MachineGames per Indiana Jones e l’antico cerchio, che sembra essere piaciuto tanto a tutti, me compreso. Ancora una volta, i ragazzi di Monolith erano avanti.

Menare uno psicotico con un libro trovato per terra? Perché no?

(da Reddit)

Nel 2014 Monolith fece ancora centro con Shadow of Mordor (e il suo seguito Shadow of War), un action open world ambientato nell’universo de Il Signore degli Anelli, tutto sommato manieristico ma risollevato enormemente dal suo rivoluzionario Nemesis System, che trasformava semplici NPC in avversari memorabili, capaci di ricordare le nostre azioni e sviluppare una loro storia personale. Una trovata così brillante che fu immediatamente brevettata, per assicurarsi che nessun altro potesse usarla. E infatti nessun altro l’ha usata. Nemmeno loro. Geniale!

E adesso? Adesso Monolith è chiusa, il suo progetto su Wonder Woman è evaporato (non che me ne fregasse granché dell’IP, a dire il vero) e Warner Bros ha deciso che il passato non serve, se non genera miliardi in microtransazioni.

Monolith era il simbolo di un’epoca in cui fare giochi significava osare, sperimentare, sbagliare, riprovare. Oggi, tutto questo è un lusso che pochi si possono permettere. Magari, in qualche timeline alternativa, Monolith è ancora viva e sta sviluppando No One Lives Forever 3. Ma qui, nel nostro mondo, dobbiamo accontentarci dei ricordi, degli emulatori e delle copie originali di No One Lives Forever 1 & 2 che custodisco gelosamente, bestemmiando ogni volta che cerco di farle partire su un PC moderno.

Grazie, Monolith. Per il sangue pixellato, per la spia più affascinante della storia, per i cambi di mutande e per gli orchi rancorosi che non dimenticano mai. Io, stanne certo, non dimenticherò te.