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Odin Sphere, altro che apocalisse, qui abbiamo il Ragnarok! | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Farò una confessione: a me dell’Unreal Engine 5 non me ne può fregare di meno. Sarò vecchio, ma dopo aver assistito alla meraviglia di vivere un mondo 3D con Final Fantasy VII (quello originale) e di aver potuto apprezzare i tratti bamboleschi ed i profondissimi occhi verdi di Aeris (quella che muore, giusto per spoilerarvelo, maledetti mocciosi che manco eravate nati quando il gioco arrivò in Italia) mi sono detto soddisfatto ed ho sempre e solo trovato conferme che potenza grafica e divertimento sono slegati, quando non inversamente proporzionali.

Del resto, nel momento in cui mi stavo cagando sotto perché la radio gracchiava in Silent Hill, me ne fregava qualcosa del fatto che la nebbia impossibile e l’oscurità mi stessero avvolgendo solo perché il motore grafico non riusciva a disegnare l’ambiente più in là di una spanna dal mio naso? E quando, in tempi recenti, ho giocato, con abbondante ritardo, a Yakuza 0, il fatto che il Dragon Engine fosse datato ha forse diminuito la mia goduria nello sfondare una motocicletta sulla testa del truzzo di turno?

Queste argute ed originali domande retoriche sono unicamente finalizzate ad arrivare a parlarvi di Odin Sphere, che nel 2007 spacco culi 3D a destra e manca, con una grafica bidimensionale di un bello e di un poetico da far cadere la mascella.

Solo bellezza.

Nel 2007, ben prima che il 2D ritornasse in auge, un po’ per merito, un po’ per moda, grazie sopratutto all’esplodere del mercato “indie”. Per poi rincarare la dose nove anni dopo con Odin Sphere: Leitfhrasir ,versione pimpata per PlayStation Vita. E via altri motori 3D che piangono. Come si fa a non alzarsi in piedi e applaudire George Kamitani ed i suoi partner in VanillaWare?

E come si fa a non raddoppiare gli applausi, considerando che la mostruosa cura grafica era solo l’aspetto più appariscente?

Pur essendo alla fine niente di più che un rullakartoni a scorrimento orizzontale in arene circolari, Odin Sphere aveva un gameplay che sulla lunga distanza diventava certamente un po’ ripetitivo ma che, facendoti alternare tra cinque diversi personaggi, ti obbligava ad approfondire le malizie dei diversi stili, mandare a memoria muscolare differenti combo e cambiare stile da assaltatore alla ricerca del corpo a corpo a tiratore che mantiene il più possibile la distanza utile per ricaricare. Il peculiare sistema di crafting e l’esplorazione dei vari ristoranti come punto focale per la crescita del personaggio (con il gradevole dettaglio di vedere le “maniere da tavola” dei diversi personaggi) spingevano poi a cercare l’eccellenza in ogni combattimento, sapendo che una perfetta sequel di combo, un alto numero di uccisioni e l’aver danzato tra gli attacchi altrui senza farsi toccare avrebbero sbloccato bonus, semi per crescere frutti dell’anima più succulenti, ricette o ingredienti.

Le boss fight erano ovviamente l’apice di questo gameplay e richiedevano di aver padroneggiato adeguatamente tanto il controllo del personaggio quanto la sua crescita. Contrariamente a quanto avviene con altri giochi, non ricordo di aver mai vinto una boss fight al primo tentativo… alcuni boss me ne richiesero anche cinque o sei e persino di ritornare sui miei passi, realizzando che il personaggio non era ancora all’altezza di un tale avversario.

Bellezza e mazzate.

Infine, la narrazione: come sarebbe stato per il suo successore Muramasa: The Demon Blade, la storia è il gioiello della corona di Odin Sphere.

E che storia: niente di meno che gli ultimi giorni prima del Ragnarok, in cui una slavina di destini intrecciati procede inarrestabile a travolgere, sotto gli occhi sconcertati dei pacifici Puka (sorta di conigli antropomorfi), uomini, fate, demoni e persino dei in terra, dee degli inferi e draghi immortali.

Pur saccheggiando le più diverse mitologie, da suggestioni del Ciclo Arturiano fino alle terre della mitologia greca, passando per le fiabe, è la mitologia nordica a fare da padrona, tanto come personaggi predominanti, quanto come sviluppo: la distruzione è inevitabile. Ogni tentativo di fermarla la fa solo progredire, i sentimenti negativi innescano le tragedie ma sono poi i sentimenti positivi che gli si oppongono a farle esplodere. I personaggi si dibattono tra scelte atroci e sentimenti violenti, avendo come unica bussola il loro orgoglio ed il loro cuore.

Abbiamo la principessa valkiria, mandata in sposa per una macchinazione politica di suo padre, Odino, all’odiato cavaliere nero che l’ha sconfitta ma lasciata in vita. Amata da colui che odia, lo tradisce, si tradisce, si innamora, lo perde, lo riconquista. Abbiamo il principe umano innamorato di una principessa detronizzata, che si trova trasformato in un Puka e deve farsi strada con la forza tra nemici e alleati fedifraghi, per riconquistare il trono e l’amore. Abbiamo la principessa delle fate che diventa regina dopo che Odino ha sconfitto sua madre in battaglia: troppo giovane per comandare, deve combattere e perdere la sua innocenza per salvarsi da una infame congiura di corte. Abbiamo il cavaliere nero: bambino rapito dalle fate, cresciuto come guerriero negli inferi, venduto come mercenario, abituato ad uccidere fino a che non si trova di fronte a un essere troppo bello per essere distrutto. Abituato alla regola del “tutto o niente”, a costei dona tutto e accetta di buon grado di diventare niente, se questo è il destino. Abbiamo la principessa perduta, figlia di un tradimento, privata del trono ma erede della chiave per attivare l’arma finale. Ricercata da tutti ma voluta solo dal padre naturale, che odia e disprezza.

Superbe mazzate!

Ogni personaggio, giocante o non giocante, è epico. Odino è un arrogante assetato di potere, che tratta le sue figlie legittime come strumenti ma si strugge per la perdita della figlia avuta da un amore segreto e ignora che il destino gliela restituirà nel più crudele dei modi. Elfaria, la regina delle fate, prevede la fine, sua e di tutto, ma non le si può opporre. Il buon re Valentine è stato trasformato dalla morte in uno spirito vendicativo, che implora la venuta del Ragnarok per essere liberato dalla sofferenza eterna. I draghi sono grandi, potenti e dotati di una saggezza enorme ma non abbastanza da temperare le loro emozioni feroci. I saggi sono uomini che sono vissuti troppo a lungo, più a lungo della loro stessa umanità.

Tutta questa epica crea emozioni forti, tensioni elettrizzanti, e si esprime in dialoghi altisonanti eppure coinvolgenti e viene a sua volta stemperata dalla eccezionale intuizione di far apparire tutto quello che accade come le letture di una bambina intelligente, Alice, che, nella soffitta della sua casa, legge in compagnia del suo gatto i tomi polverosi che raccontano queste storie.

L’effetto è quello della frase che chiude il Barry Lyndon filmico:

Di loro restano il ricordo e la speranza che la breve felicità trovata prima della fine li abbia accompagnati per sempre.

Questo articolo fa parte della Cover Story (post)apocalittica, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.