Out Run è uno stile di vita | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
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Nel mito di Out Run, vive quello di Bonnie e Clyde. Ne è una reinterpretazione in salsa yuppie, le regole (stradali) infrante per puro sfizio e bisogno di adrenalina, smettendo giacca e cravatta del self-made man (o figlio di papà) per il weekend, tirando fuori la Testarossa dal garage e caricando su quella sventola bionda conosciuta in qualche locale di Ocean Drive. Un immaginario frivolo e abbastanza sessista, certo, donne, motori e denaro come 1986 chiedeva a gran voce, e Yu Suzuki è uno che i tempi è sempre riuscito a capirli e cristallizzarli. Musica a palla, piede a tavoletta, capelli al vento e la strada che si srotola davanti al cavallino rampante, tenendo un ritmo di 230km/h, come in una ripresa raso-asfalto di Lynch. È la rappresentazione in pixel del benessere, non solo quello economico, tipico degli anni Otttanta che racconta, qualcosa di più profondo, che all’inizio sembra solo apparenza, sfoggio di uno status symbol perenne, immutabile nel gameplay. Perché come per i due iconici fuorilegge, c’è dell’altro sotto, un amore profondissimo (soprattutto quello che il giocatore ci versa dentro), il desi
derio insaziabile di libertà, l’allontanamento dalle regole, dalla stabilità, in favore del coast to coast più sfrenato, senza meta, wanderlust.
Poi, certo, quei due ammazzavano pure la gente in nome della libertà, questi al massimo si ribaltano in un fosso dopo aver preso una curva troppo allegra, ma insomma. Il punto è che in Out Run c’è tutta quella voglia di tirare su la macchina, andare a prendere la persona amata e partire, guidare, guidare, guidare, la musica generata proceduralmente da qualche playlist in riproduzione casuale, talmente assordante che sembra ci si possa galleggiare dentro… O farsi una doccia sonora per purificare l’anima, rinascendo a nuova e ribelle vita. Non è “fare una gita” ma salutare tutti e tutto il superfluo con un dito medio puntato al cielo e andare. Bandiera a scacchi, via! Mettendo più distanza possibile tra noi e le preoccupazioni.
Eppure, il game design ti ricorda comunque quanto il tempo sia tiranno e le strade tante, sì, ma non infinite, tentando sempre di farti avere un ripensamento per riportarti alla casella di partenza. Lì, col pubblico che urla, il mare a sinistra, le palme a fare la ola e indicare la via. Grigio in basso, azzurro in alto. Frizione, prima, il rombo degli scarichi in chiptune, le gomme che fumano nuvole di pixel.
Più che un viaggio, sono una serie infinita di tentativi di fuga, sempre più perfetti e puliti, uno svincolo dopo l’altro, cambiando forme e colori di panorami in timelapse, non solo di ora in ora ma di latitudine in latitudine. Dalla Florida alle Alpi, dal deserto di Dubai al Grand Canyon, non esistono limiti e confini, in Out Run, solo la voglia di correre. Perché se ti capita di essere al volante di una Ferrari Testarossa spider, creata come modello unico per Gianni Agnelli e virtualizzata poi per milioni di giocatori, la voglia di mandarla su di giri diventa parte fondamentale dell’esperienza. È una sensazione di onnipotenza, quella data dai fumi della benzina ad alto numero di ottani, stupefacente ludo-motoristico la cui assunzione non comporta alcuna decurtazione di punti dalla patente, anzi, ne aggiunge al contatore metro dopo metro, esaltandosi nella follia di sorpassi al millimetro. Essenza del piacere automobilistico, definitivo e totalizzante nell’assenza di motori fisici sopraffini e playseat da mutuo. Velocità, musica, compagnia, paesaggi e quelle curve messe nei punti giusti, da anticipare e accarezzare. L’indispensabile e nient’altro, nel gioco come on the road.
Icona capace di sostituire nell’immaginario pop le “corse più pazze del mondo”, diventando versione idealizzata della Gumball e di altri eventi motoristici del genere. Ispiratore di generi, videoludici e musicali (salutiamo Kavinsky e tutta la synthwave), con una colonna sonora fuori dal mondo, bellissima, perfetta, capace di spaziare tra suggestioni e profumi esotici, latini, synth pop spinto e jazz elettronico, elevando Hiroshi Kawaguchi nel pantheon dei compositori videoludici, come fosse il Jimi Hendrix dello Yamaha YM2151. Stimoli uditivi che già da soli fanno ribollire il sangue nelle vene e la benza nei cilindri, pronti per andare ovunque, basta che non si stia fermi un secondo di più. Out Run rivive in ogni road movie, in ogni personaggio che vuole cambiare vita, Lula e Sailor, Alabama e Clarence. Quella sensazione di indipendenza che solo un’auto sa trasmettere, e chi ha iniziato a pasticciare con un pad solo per guidare lo sa bene, cosa si prova. La prima cotta idealizzata in quella chioma bionda, il cui viso poteva essere sostituito da qualsiasi lineamento. Pronti a tutto per conquistarla, machismo misurato in cavalli, come ci hanno indottrinato a fare. Sogni d’amore di un’estate eterna, la più calda che il videogioco ricordi. Capote abbassata, gomito appoggiato alla portiera, iniezione di autostima virtuale che elimina per qualche minuto ogni inadeguatezza. E anni dopo, viene da pensare che sia anche merito suo, se oggi quella possibilità ce l’abbiamo davvero, assurdo! Certo, magari non su una Ferrari (non ancora, oh) ma sentendosi sempre un po’ outrunners, ogni volta che infiliamo le chiavi nel quadro e guardiamo quegli occhi lì, alla nostra destra, finestrini giù, Passing Breeze tra i capelli. Si riparte, come sempre.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata all’escapismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.