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Outcast SOTY 2018

E rieccoci all'ormai tradizionale appuntamento con gli OTY, i nostri premi per il meglio del meglio dell'anno che si è appena concluso. Le regole, come sempre, sono semplici, e infatti le copincollo da quelle dell'anno scorso: ciascuno dei partecipanti, selezionati in base al classico criterio "Chi c'ha voglia", integrato con "Chi si ricorda", "Chi mi manda la roba per tempo" e "Chi non ha la sfiga di avermela mandata in una maniera che abbia fatto sì che poi io me la sia persa", deve indicare una serie, un film e un videogioco che secondo lui svettano rispetto a tutto il resto e dare anche una minima motivazione. Ovviamente poi le regole vanno subito nel cesso e ognuno fa quel che gli pare, ma insomma, siamo fatti così.

Lo spirito non è quello di fornire indicazioni oggettive e completissimissime, è solo che ci piace dire la nostra e, magari, consigliarvi cosette interessanti che vi sono sfuggite. Tutto qui. Si comincia oggi con le serie TV, poi domani i film e infine venerdì i videogiochi.

Buona lettura e buon anno!

Stanlio Kubrick

La mia SOTY è Star Trek: The Next Generation. No no, non Discovery: il 2018 è stato per me l’anno della scoperta di Star Trek, dalla quale mi ero sempre tenuto alla larga per motivi non meglio specificati e che finalmente ho deciso di affrontare, lentamente e metodicamente, a partire dall’episodio 0 per finire idealmente con l’ultimo di Discovery (o qualsiasi altra nuova serie successiva che sarà uscita nel frattempo). E se l’OG mi ha fatto conoscere Kirk, Spock, Scotty e i pianeti pazzi che sembrano usciti dalla bibliografia di Jack Vance, The Next Generation è stata una folgorazione clamorosa, che mi ha fatto rivalutare in prospettiva decine e decine di cose della fantascienza che ho visto negli anni al cinema e in TV. O anche: guardare TNG è come guardare Buffy, un bignamone di tutto quello che si vedrà negli anni Novanta/Duemila/Duemiladieci in ambito sci-fi e dintorni; è come risalire alla fonte di tutto, e se state pensando «Be’, benvenuto, stronzo, grazie che Star Trek è la fonte di tutto, te ne accorgi nel 2018?», la risposta è sì, sono stronzo e me ne sono accorto nel 2018. Facciamo a botte?

Marco Esposto

La terza e ultima stagione di Ash VS Evil Dead chiude il cerchio aperto quasi quarant'anni fa da Sam Raimi con il primo Evil Dead (La casa per noi italiani). La serie TV che ha rilanciato Ash e il suo macabro ma ironicissimo universo horror, per me, è tutta una bomba. Molti alti, qualche basso, qualche casino produttivo, soprattutto, ma nel complesso tre stagioni divertenti, irrispettose, spesso con idee geniali e anche alcuni guizzi di regia degni dei migliori film horror. La prima stagione, a volte, puntava sugli episodi quasi autoconclusivi, la seconda ampliava tutto tirando fuori un vero super cattivo, concludendosi in modo più incerto e meno incisivo per i problemi dietro le quinte di cui prima, come l'abbandono dello showrunner. Questa terza, secondo me, è la migliore, dato che recupera il terreno perso e si propone quasi come un lungo film, con un'unica trama orizzontale che chiude tutti i discorsi lasciati aperti. Il finale, poi, è così fuori di testa che ho fatto la ola mentre guardavo l'ultima puntata. E c'è quell'ultima scena che, prima di vederla, avevo sentito aprisse le porte a dei seguiti che non vedranno mai la luce. Ma che cazzo dite? No, davvero, credo non abbiate capito lo spirito dell'universo di Ash VS Evil Dead. Il finale è perfetto, avevano pure dichiarato che l'intenzione era quella di fermarsi lì. Ma palese. Ed è pure una figata, un finale che mi ha fatto morire dal ridere. Poi, chiaro, se doveste chiedermi se voglio vedere altro Ash, magari proprio in quel contesto finale, vi direi subito di sì. Ma Campbell, nelle ultime interviste, mi è sembrato più deciso del solito nel voler appendere la motosega al chiodo, e ci sta, dai. Di meglio non si poteva chiedere. Se non l'avete seguita, avete tre stagioni da recuperare, letteralmente una più bella dell'altra. Sangue, merda, mostri, linguaggio sboccato, machismo maschilista preso a pesci in faccia da qualche calcio nelle palle, con un personaggio impossibile da sopportare nella vita vera come quello di Ash, e per questo bellissimo nella finzione.

Andrea Peduzzi

Di serie lo scorso anno ne ho viste poche, pochissime, perlomeno in live-action e rispetto ai miei standard da spettatore bulimico degli anni passati. Così, a caso, meritano almeno una menzione La fantastica signora Maisel, Maniac e The Romanoffs, l’impeccabile antologia firmata da Matthew Weiner. Di contro, mi sono sparato una valanga di serie animate, soprattutto giapponesi, ed è proprio da quel bacino che intendo pescare la mia SOTY.

Sulle prime avevo pensato a Darling in the Franxx, che nel suo essere imperfetto e derivativo, riesce comunque a regalare degli “slice of life” estremamente intensi. Poi sono passato per ReLIFE, iniziata nel 2016 ma chiusasi lo scorso marzo e arrivata in Italia grazie a Crunchyroll (miglior servizio video dell’anno).

Alla fine, però, la serie che più di tutte si è sintonizzata sul mio stato d’animo del 2018 (quello un po’ agrodolce del neo-quarantenne bollito ma che ancora ce la fa) è stata Dopo la Pioggia, prodotta da Wit Studio, diretta da Ayumu Watanabe e tratta dal manga omonimo di Jun Mayuzuki. La storia sentimentale impossibile tra la diciassettenne Akira Tachibana e il quarantacinquenne Masami Kondo è una meravigliosa versione alla rovescia di Maison Ikkoku. La vita della giovanissima atleta vittima di infortunio e del manager di una tavola calda divorziato con ambizioni da scrittore si incrociano per un momento, danzano e alla fine ripartono verso direzioni diverse. Una meraviglia vera, sbarcata dalla nostre parti grazie ad Amazon Prime Video.

Natale Ciappina

Nel caso delle serie TV, non posso fermarmi a un solo nome; non tanto per la competizione particolarmente numerosa, quanto perché credo sia giusto bipartire la mia scelta in due: da un lato una serie TV al debutto, dall'altro una che invece è arrivata al 2018 con magari una o più stagioni alle spalle. Nel primo caso, non posso che stropicciarmi gli occhi di fronte a Il miracolo, la nuova serie prodotta da Sky Italia e con Niccolò Ammaniti nel ruolo, per lui inedito, di showrunner. Seppur non sia un grandissimo amante di Ammaniti, gli ho sempre riconosciuto una capacità narrativa che in Italia ha pochi eguali nel panorama contemporaneo; dopo aver visto Il Miracolo, mi sono invece reso conto che Ammaniti è con ogni probabilità il miglior narratore che l'Italia possa vantare. Il miracolo è diversissimo rispetto al taglio adolescenziale, o pulp, che la maggior parte dei romanzi di Ammaniti ha; eppure mantiene quella sua incredibile capacità di catturare lo spirito del tempo, grazie anche a delle splendide (e sorprendenti) interpretazioni, ma anche per via di un approccio surrealista che cita a più riprese il Twin Peaks di Lynch, mantenendo però sempre chiara e definita la propria identità, seppur con qualche intoppo verso il finale. Un finale che è stato invece semplicemente da applausi per The Americans, che si chiude dopo sei stagioni in un modo che è bellissimo e struggente, anche a dispetto di certe forzature che potrebbero far storcere il naso ad alcuni, ma che a me, invece, hanno fatto finire in lacrime; i rapporti di coppia seriali non saranno più gli stessi, dopo Philip ed Elizabeth Jennings.

Alessandro De Luca

Di serie TV ancora da guardare ne ho talmente tante che penso che non finirò mai, ma tra quelle (poche) che sono riuscito a recuperare, la palma di migliore dell’anno va alla seconda di GLOW (e mi sa che la prima è stata la mia preferita del 2017). È inutile, sono un fanboy delle “gorgeous ladies of wrestling”, adoro tutti i personaggi, le loro vite, i loro rapporti e le loro relazioni, e tutto quello che succede sul ring e non. È scritta in maniera impeccabile, con dialoghi che talvolta possono sembrare banali ma riescono sempre a cogliere nel segno e dare un senso ai comportamenti talvolta illogici dei personaggi. Ma gli esseri umani sono illogici per natura, e GLOW ci mostra delle persone che vivono i conflitti in maniera sempre credibile e appassionante. Non vedo l’ora che esca la terza.

Marco Mottura

Sono rimasto piuttosto indietro con tante serie che seguivo già (su tutte Black Mirror e l’ultima di Bojack Horseman), e tante altre che avrei voluto iniziare sono rimaste lì ad aspettare invano che premessi il tasto play (Altered Carbon, The Haunting of Hill House, Maniac, Le curiose creazioni di Christine McConnell), quindi la scelta in questa categoria è per forza un po’ limitata. La stagione 4 di Bojack Horseman è di certo la cosa migliore che io abbia visto nel 2018, però mi sento di premiare Castlevania: non avrei sinceramente dato due lire alla trasposizione anime del videogioco Konami, eppure la serie si è rivelata una sorpresa godibile e spassosa. Poi, oh, ci sono i preti nella parte dei cattivi, con me hai già vinto facile, così.

Stefano Talarico

L’arrivo di Maniac su Netflix è stato un fulmine a ciel sereno. In un anno in cui è stato più che facile perdere interesse per le produzioni seriali del colosso californiano, la nuova serie di Cary Joji Fukunaga (ve la ricordate la prima stagione di True Detective?) ha illuminato la notte: una luce così deflagrante che moltissimi, ancora vittime della mossa Kansas City di [inserire serie di merda random uscita quest’anno su Netflix], se la sono persa. O hanno pensato bene di saltarla a pié pari, ché Jonah Hill magro sembra veramente una busta della spesa senza niente dentro. Al contrario, Maniac è una miniserie pazzesca, dieci puntate dalla durata variabile e sempre perfetta, in grado di mettere in scena il futuro prossimo più plausibile dai tempi di Blade Runner e, in più, un’altra miriade di altre cose che non voglio dirvi, perché se non l’avete vista dovete vederla e se l’avete già vista già sapete, e ci riconosceremo per strada con lo sguardo che abbiamo noi giusti. O forse sarà solo un cartellone pubblicitario a cui abbiamo venduto la nostra immagine per pagarci un viaggio in metro.

Davide Mancini

Quest’anno ho un backlog di serie TV immenso, per cui ci sono Maniac e Sharp Objects che probabilmente potrebbero serenamente occupare questo spazio, che invece dedico a qualcosa di più piccolo, ma che ha monopolizzato il mio inizio anno. Parlo di Violet Evergarden, una serie animata di tredici puntate, prodotta da Kyoto Animation e distribuita in tutto il mondo da Netflix in simulcast, tratta da una serie di light novel scritta da Kana Akatsuki e illustrata da Akiko Takase. Ho un passato da fan accanito di anime e un presente di chi, per questioni di tempo/voglia/cose ne segue davvero pochi. Violet Evergarden l’ho divorato, amato, per via di una delicatezza splendida, della voglia di raccontare una piccola storia alla scoperta dei sentimenti in un contesto malinconico, dell’accortezza di raccontare le conseguenze di una guerra dal punto di vista di chi ne subisce, a vari livelli, le conseguenze, della trovata di mettere al centro di tutto la scrittura, una forma di comunicazione che, a torto o a ragione, mi è evidentemente molto cara. È vero, a volte è superficiale, se vogliamo anche leggera e banale, ma ogni episodio ha tantissmo cuore, ed è disarmante nel modo in cui mi ha fatto emozionare.

Alberto Torgano

Sono messo male: io inizio un sacco di roba ma non la finisco mai, perché ho una soglia di interesse risibile. A parte Rick & Morty, tutto il resto ristagna. Ma comunque, direi che le serie stand out dell’anno sono la solita Better Call Saul, che come sempre si dimostra di altissimo livello, e che personalmente amo più di Breaking Bad, e poi The Amazing World of Gumball. Cos’è, Gumball, chiederanno i lettori senza figli? Beh, Gumball è la versione bella dei Simpson e di Family Guy, con un taglio più giovanile, essendo adatta anche ai bambini, ma con temi molto più attuali e vicini al mondo di internet e dei videogiochi. Ed è molto, molto bella! Da vedere per tutti, la puntata in cui fanno la parodia di Final Fantasy, con Gumball che chiama sé stesso in game “My Butt”, o quella in cui navigano per tutta la puntata sul Facebook di Elmore. Se non conoscete questo personaggio, fate qualche ricerca su YouTube e non ve ne pentirete!

Davide Moretto

So che è una serie che a qualcuno ha fatto letteralmente sboccare ma, tra quelle (poche) che ho visto, quella che ho seguito con più attenzione è stata DARK, una serie Netflix prodotta in Germania, nella quale i paradossi temporali creano un mucchio di linee che ci vuole una laurea in fisica per capirle (no, non è vero, ma è meglio guardarlo con attenzione e non all'una di notte). Probabilmente, la seconda stagione sarà una schifezza, ma la prima mi ha coinvolto non poco.

Alessandro Zampini

Tra cose lasciate a metà (Casa de Papel, per me puoi pure finire con una retata nel sangue), cose strepitose che vorrei aver finito ma ancora non ce l’ho fatta (The Americans, mamma mia) e cose che ritornano ogni anno (The Office è forse al quarto passaggio, integrale), la decisione finale era tra due serie del cuore, che quando uno figlia, poi, diventa super emotivo e cerca rifugio nei ritorni del passato.

E quindi, da una parte l’ultima stagione di Doctor Who, con una Jodie Whittaker che spacca i culi e delle storie (non tutte bellissime) che tornano ad avere uno sviluppo verticale che valorizzano meglio il personaggio, e dall’altra La fantastica signora Maisel, che per me Amy Sherman Palladino è una Aaron Sorkin che ce l’ha fatta (e non è finita a scrivere per dieci anni le stesse storie retoriche e di ricerca di figura paterna) e merita tutto il meglio.

E quindi nulla, alla fine ha vinto Midge con la sua carriera da comedian, l’agente bizzarrona e la voglia di emancipazione più forte dell’istinto materno; tutte cose, sopratutto Susie compresa, di cui dovrebbero essercene di più.

Andrea Maderna

Trakt mi segnala che la mia “roba” TV preferita fra quelle che ho guardato nel 2018 è la sesta e ultima stagione di The Americans, che è in effetti un clamoroso ritorno di forma, dopo un quinto anno in lieve calo (dopo quattro anni di capolavoro totale, va detto) anche se a mio parere eccessivamente criticato. Un gran finale che chiude i discorsi in maniera perfetta, scegliendo una via ben lontana dall’essere la più ovvia e facile, capitalizzando con una forza incredibile sul lavoro portato avanti per sei anni e lasciandoti anche lì appeso su due o tre cose crudelissime. Quei cinque minuti nel parcheggio pesano come se durassero cinque ore; la telefonata nella notte dalla stazione di servizio è straziante; la scena con With or Without You di sottofondo, che sulla carta dovrebbe essere la pacchianata suprema, è clamorosa; il finalissimo è perfetto. Recuperatelo. Davvero.

Per quanto riguarda, invece, le serie iniziate nel 2018, classifichina canta, stavo per segnalarvi Hilda, che è una cosa un po’ particolare, dato che è una serie animata per bambini (+7) che ho iniziato a seguire con mia figlia (-3) e di cui mi sono innamorato, perché ha uno stile clamoroso, una forza immaginifica notevole, un immaginario fuori di cozza e un bel messaggio sotto pelle di apertura e uguaglianza. Mi sono pure comprato il fumetto da cui è tratto. Poi, però, nei giorni scorsi mi sono guardato la prima stagione di Killing Eve, nuova, clamorosa, serie ideata e in larga misura scritta dalla nostra amica Phoebe Waller-Bridge, che parte come spy story, poi diventa una specie di Il silenzio degli innocenti, quindi parte per una tangente che non sai neanche bene cosa sia e nel mentre ha il gran pregio di raccontare cose già viste mille volte ma attraverso un punto di vista femminile, che le rende davvero fresche e mai viste prima.

Ha tutta la forza incredibile della Phoebe e del modo in cui mescola alla perfezione gli approcci narrativi: un attimo sei deflagrato dalle risate, un istante dopo sei straziato dalla svolta narrativa, due secondi dopo sei tesissimo per il thriller, e poi ancora l’azione, lo spionaggio, tutto mescolato con un equilibrio perfetto e una capacità impossibile di evitare che i continui cambi di tono si sminuiscano a vicenda. Gli attori sono fantastici, con una Sandra Oh clamorosa e una Jodie Comer che se non diventa una star è un mondo ingiusto; i personaggi sono tutti pazzeschi, soprattutto per quella capacità di proporli come macchiette e farli poi evolvere all’improvviso in maniere completamente inattese; e lo sviluppo è una sorpresa continua, con una capacità adorabile di levarti il tappeto da sotto i piedi ogni venti minuti, ribaltare i cliché e fare quasi sempre il contrario di quello che sarebbe lecito attendersi. Due puntate divertenti, quattro puntate irresistibili, due puntate in cui si “calma” ma continua a sorprenderti con svolte che boh. Madonna, che roba.